Fin da bambino, sento di avere una specie di malattia: tutte le cose che mi stupiscono si dissolvono senza che io riesca a conservarle abbastanza.
(J.H. Lartigue)

Questa riflessione di un Jacques Henri Lartigue già ultrasettantenne rivela quanto sia superficiale marchiarlo tout court come “il fotografo della felicità”.

Riepiloghiamo brevemente la vicenda personale e fotografica di questo maestro anomalo, e se vogliamo partire dalla fine, diciamo che egli è rimasto quasi sconosciuto come autore fino all’età di settant’anni, debuttando direttamente al MOMA di New York all’indomani della sua “scoperta”, dovuta all’occhio infallibile di John Szarkowski (anche se, in Europa, alcune sue foto erano già state pubblicate ed esposte) .

Jacques Henri Lartigue, Renée, Route Paris - Aix les Bains, luglio 1931 Stampa su gelatina ai sali d'argento © Ministère de la Culture-France/AAJHL

Nato in una ricca famiglia, la sua vita si dipana tra i piaceri, la bellezza, gli agi, i divertimenti: Costa Azzurra, corse in auto, belle donne, ville, eleganza. Mentre tutt’intorno, dopo la Belle Epoque, si addensano, prossime ma “lontane”, nubi nere di conflitti, problemi razziali, economici, politici.

Un bambino fortunato, si direbbe dunque. Eppure il piccolo Jacques, già a pochi anni, avverte un disagio legato alla sua ipersensibilità: tutto è magnifico, ma egli non riesce a trattenere nulla perché il tempo scorre portandosi via i ricordi e le immagini. Ciò che resta in lui, è un’impalpabile malinconia, un senso continuo di perdita, al punto da inventarsi questo rituale: ogni volta che vive una situazione incantevolmente bella e piacevole, prima che sia finita, chiude e riapre gli occhi per “catturarla”. Senza rendersene conto, fa qualcosa che assomiglia già ad una fotografia, anche se solo mentale.

Jacques Henri Lartigue, Concours de planeurs. Edmund Allen, Combegrasse, agosto 1922 © Ministère de la Culture-France/AAJHL

Unico antidoto, dunque, tenere quasi ossessivamente dei diari nel tentativo di fissare ogni momento degno di essere fissato.

Inutile dire che, avuta in regalo la prima macchina fotografica all’età di 7 anni, questo diario diviene – e sarà per tutta la vita – anche fotografico. Esso coprirà quasi per intero il ‘900, dal momento che Lartigue condurrà la sua “terapia” per oltre 80 anni, accumulando 14.423 pagine in 135 grandi album pieni di grazia, leggerezza, sorrisi, modernità, ma anche di sperimentazioni fotografiche (doppie esposizioni, foto panoramiche, prime autocromie, e poi il movimento come soggetto…).
Insomma, una pratica del tutto personale e privata, la sua, senza grandi velleità extra-casalinghe.

Jacques Henri Lartigue - Bibi ed io nello specchio - Chamonix, gennaio 1920

Egli si dichiarava, piuttosto, un pittore: con i suoi dipinti – peraltro mediocri – aveva tentato una carriera d’artista.
Il mondo scopre la grandezza di Lartigue fotografo quando ormai la vezzosa frangetta di capelli bianchi arreda il suo viso. Una mostra al MOMA, come detto, e contemporaneamente la pubblicazione di una selezione su Life, lo rivelano e lo consacrano. Da quel momento viene osannato e collezionato, mentre lui continua a fotografare.

Jacques Henri Lartigue, Grand Prix de l’ACF, automobile Delage, Circuit de Dieppe 26 giugno 1912 Stampa su gelatina ai sali d'argento © Ministère de la Culture-France/AAJHL

Lartigue lascia la macchina fotografica e questo mondo nel 1986 a 92 anni, dopo una vita che più intensa e lunga non si può.

Oggi tutta la sua enorme eredità fotografica viene raccolta, ordinata e valorizzata dalla Donation Jacques Henri Lartigue. Attualmente, per  esempio, la Donation e la galleria parigina Jeu de Paume presentano, al Castello di Tours, una mostra dal titolo Lartigue, l’émerveillé (fino al 26 maggio).
Nei giorni scorsi, al MIA, la casa editrice Johan & Levi ha riproposto in versione italiana lo splendido volume Lartigue. L’album di una vita.

Jacques Henri Lartigue, Gérard Willemetz et Dani, Royan, 1926 Stampa ai sali d'argento © Ministère de la Culture-France/AAJHL

Fin dalla sua tardiva apparizione, Lartigue è stato definito – di volta in volta – il fotografo della felicità, dell’ottimismo, del buonumore, eccetera. Tutte cose che, indubbiamente, sono materia costitutiva delle sua immagini (senza dimenticare la precoce genialità compositiva e il talento innovatore), ma non lo collocano forse nella sua più vera dimensione psicologica.

Nelle periodiche e costanti revisioni a questi diari personali, non a caso, egli li ha via via ripuliti dalle frequenti annotazioni tristi, dagli episodi duri che anche a lui la vita ha imposto (per esempio la morte della seconda figlia di pochi mesi).

Infatti – come lui stesso rivela tra le righe – queste formule magiche in forma di fotografie erano essenzialmente, per l’alchimista JHL, l’esito di una lotta, di un corpo a corpo contro l’inesorabile panta rei, nel tentativo di usare il mezzo che per definizione “ferma il tempo”.

E in qualche modo aveva visto giusto: lui non c’è più, ma noi possiamo e potremo ancora partecipare al suo mondo di emozioni e di grazia, intriso di quella strana gioia malinconica.

Chissà, forse sono più le cose che Lartigue non ci ha detto di quelle che ha voluto rivelarci.
Forse le sue foto mentali, fatte chiudendo e riaprendo gli occhi, sono le più preziose e resteranno solo sue.

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