Perché potrebbe essere utile portare una bambina (o un bambino) a visitare il primo museo europeo, sito a Berlino (ce n’è già uno in Usa) che riproduce a grandezza umana l’abitazione della più famosa bambola del mondo, la Barbie? Perché toccare con mano l’inutile e il dannoso, usando criticamente lo sguardo sulla realtà che l’umanità produce è, talvolta, un passaggio educativo importante. (Berlino, apre la casa di Barbie, ndr)

Certo, si dirà: non è sufficiente accedere al sito della Mattel per percepire la stucchevole irrealtà di un mondo virtuale ‘tutto rosa’, che rimanda al quotidiano dove le bambine prima, e le donne poi, dovrebbero corrispondere nella visione sessista dei ruoli?

La visita al sito è già, di per sé, un’esperienza interessante e straniante: ci sono bambine entusiaste di poter fabbricare ogni stanza della loro casa rosa, dove l’obiettivo eccitante che si può realizzare è scoprire tutti i segreti dell’armadio rosa di Barbie, accanto alla strepitosa possibilità di poter giocare con bambole magrissime e dai seni appuntiti abbigliate da principesse, sirene o fate, ovviamente nelle infinite sfumature del rosa. Un universo confettato, chiuso, isolato da qualunque contatto con il mondo esterno: una prigione rosa, così potentemente irreale da diventare al limite del folle.

Bambole, si dirà: che male possono fare?

Ma non sono gli oggetti in sé, pur potentemente evocativi nel simbolico, a costituire un pericolo, pericolosi sono i motivi per i quali questi oggetti vengono prodotti, e l’ideologia che li spinge a diventare precise indicazioni di normazione. Lo dice bene il grottesco La donna perfetta, film del 2004 diretto da Franz Oz e tratto dal romanzo La fabbrica delle mogli di Ira Levine, e anche il libro dal titolo omonimo di Nicoletta Bazzano.

L’innocenza del sorridente pezzo di plastica (in realtà un po’ rigido) che compone la famosa bambolina si infrange presto se poco poco si scava nella sua storia: protagonista assoluta dei ricavi della Mattel, che nel 2011 ha denunciato 6,2 miliardi di dollari, Barbie nasce in Germania come ‘prodotto per adulti (maschi) per poi trasmigrare negli Stati Uniti dove la moglie di uno dei proprietari del colosso di giocattoli, Ruth Andler, intuì il potenziale di una bambola come quella: rivolta alle bambine non come imitazione di una neonata, per stimolare il loro futuro di madri, ma bensì per addestrarle al meglio nell’imitazione della perfetta donna di casa.

Un’arma micidiale, che seduce e conferma su più versanti: è asessuata quanto basta senza essere amorfa, può essere adattata alle varie necessità (cambia colore della pelle e dei capelli), può essere principessa, operaia, può vestire jeans, bikini e anche il burka, perché no?, ed è quindi ambasciatrice quieta e rassicurante per ogni angolazione del femminile desiderabile.

Sfiorata, nel 2007, dallo scandalo degli accessori al piombo che la Mattel ritirò in tutto il mondo (844mila pezzi) Barbie, e la sua rosa casa museo che stride in una Berlino che dalla caduta del muro sperimenta visioni e pratiche alternative di quotidiana convivenza è lì a ricordare che sottovalutare la potenza dello stereotipo è un errore. Dietro all’innocenza del rosa, e del ‘come tu mi vuoi’ che educa le bambine alla capricciosa mutevolezza femminea, e quindi di rimando i bambini alla boriosa e noiosa muscolosità dell’omologo compagno Ken (decisamente meno fortunato della Barbie) c’è la prigione delle gabbie sessiste, che omologano le case rispettabili alle meno rispettabili, (ma molto frequentate) case chiuse.

Un bordello rosa, ma sempre un bordello è.

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