Stamane partecipo ad Agorà su Rai Tre, insieme a Marco Lillo, per parlare di Imu, intercettazioni, impoverimento nazionale e altri cenni sull’universo. In più, per fare a capocciate con il non gradevolissimo Davide Giacalone, oggi mimetizzato quale giornalista di Libero ma più “noto all’ufficio” in quanto assistente di Oscar Mammì al tempo lontano (si era ancora nella Prima Repubblica) della prima spartizione “al di sotto di ogni sospetto” tra Rai e Mediaset.

Come in qualsivoglia talk-show che si rispetti, dominano la scena i politici ospiti; nel caso Mariastella Gelmini per il Pdl e Matteo Colaninno di parte pidina. E litigano. Quello che dicono nella loro singolare baruffa tra soci sostenitori della medesima compagine governativa è totalmente privo di interesse, attingendo a piene mani dal repertorio più vieto della Commedia dell’Arte delle sedicenti “larghe intese”. Ben più interessanti sono i messaggi del linguaggio non verbale emessi da entrambi, le cui posture risultano infinitamente più chiarificatrici di qualsivoglia discorso.

L’ex giovane imprenditore imbarcatosi in politica rivela attraverso la concitazione con cui si esprime tutto il proprio imbarazzo; in altre parole, la comprensibile vergogna per la situazione in cui si è cacciato. Ma si potrebbe far osservare a lui e ai suoi compagni di sventura che “se la sono voluta”. Sicché stupisce lo stupore del neosegretario Pd Epifani nel prendere atto che Berlusconi è Berlusconi; quando il cacicco di Arcore esige che ogni suo volere, particolarmente in materia di mordacchia alla giustizia, venga immediatamente accontentato e pure servito in religioso silenzio.

D’altro canto questo è il bel risultato di essersi consegnati mani e piedi a un personaggio affetto da ipertrofia iomaniaca e alla sua banda di accoliti. A fronte dell’imbarazzato Colaninno, spicca la seraficità della Gelmini; perfettamente consapevole che la sua parte tiene ben stretto il pallino in mano. Infatti i partner di governo potranno pure agitarsi allo scopo di fare un po’ di scena, fermo restando che l’ennesimo viaggio a Canossa è quanto li attende.

Di converso tutte le argomentazioni espresse nel linguaggio verbale non hanno alcuna attinenza con la realtà, pure teatralizzazioni. Come – ad esempio – la questione Imu; la cui marginalità risulta evidente ma che ormai si è trasformata in un simbolo, come a suo tempo divenne tale l’abrogazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Ossia una bandiera che si agita per chiamare a raccolta e aggregare gruppi di simpatizzanti, in previsione di possibili spendite elettorali. Insomma, la battaglia sull’Imu è una credenziale di compattamento del fronte proprietario al fine di creare un vero e proprio conglomerato di interessi; qualcosa che in modi deteriori (e mentre lo dico spero di non apparire blasfemo) riprende l’idea gramsciana del Blocco Storico a supporto di una politica.

Semmai il punto inquietante è che dall’altra parte non c’è neppure la vaga consapevolezza che una politica dovrebbe individuare pezzi di società che la supportino. Anche per questo Berlusconi e i suoi dipendenti hanno ripreso a vincere (politicamente; elettoralmente hanno perso oltre sei milioni di voti): per l’insipienza degli altri. Come manifestava in maniera palese lo smarrimento che gradatamente andava dipingendosi sul volto del garbato quanto intimidito Matteo Colaninno: è dura fare politica fuori dagli ambienti protettivi e salottieri dei Giovani Imprenditori e dalle fabbriche di papà.

 

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