Il tema dei prodotti “sani e leali”, intesi come rispondenti alle attese dei consumatori e a quanto dichiarato dai produttori, è tornato prepotentemente alla ribalta dopo lo scandalo legato all’utilizzo, non dichiarato in etichetta, della carne di cavallo. La situazione economica decisamente degradata, può spingere delle aziende a pensare di risolvere in maniera sbrigativa le difficoltà. Ed è chiaro, comunque, che non si tratta di episodi sporadici: sappiamo che esiste un’economia sommersa, basata sulla frode. Inoltre la globalizzazione degli approvvigionamenti, unita a metodologie di indagine sempre più sofisticate, portano a sempre nuove scoperte di contaminanti inattesi o prima del tutto sconosciuti”. La situazione, così, si complica, in una continua rincorsa.

È per quest’ultima ragione che scoppiano scandali veri, ma anche “mediatici”, nel senso che il clamore e la pressione dei media, spingono i consumatori a preoccuparsi e a revocare la fiducia ad interi settori, ma non sempre a ragione. Capita, ad esempio, che si trovino tracce di sostanze non dovute a livelli bassissimi, irrilevanti, o senza una reale significanza, o ancora, senza che vi siano limiti fissati per legge. Oppure che la frode sia dovuta a dichiarazioni di caratteristiche diverse dalle originali, ma senza alcuna conseguenza. Ma, in una comunicazione che tende alla semplificazione, spesso non si distingue, come si dovrebbe, tra frodi di natura commerciale e rischi effettivi per la salute del consumatore. Ciò non vuol dire, tuttavia, che vada sottovalutato il problema o abbassata la guardia. Anzi vale il contrario.

Al contrario degli altri post, questa volta voglio raccontare una mia esperienza diretta, che merita di essere conosciuta. Fin dai primi anni 2000, in coop abbiamo deciso che occorreva rinforzare il presidio su alcune direttrici importanti. Per questo motivo è stato creato un “gruppo rischi emergenti” del quale ho l’onore di fare parte, col compito di pensare quali le possibili frodi e, di conseguenza, collaborare con le principali Università ed Enti di Ricerca, per trovare le contromisure. In una battuta, pensare come ladri per fare ancora meglio le guardie. Questo gruppo, negli anni ha ovviamente trovato molti spunti e molte delle ricerche sono poi diventati limiti volontari per i nostri capitolati di fornitura e, in alcuni casi, veri e propri limiti di legge. Le nuove sfide? La tracciabilità delle materie prime e dei semilavorati, i materiali per gli imballi e le nuove micotossine. In testa all’elenco dei prodotti sotto la lente d’ingrandimento, ovviamente, tutti i principali prodotti agroalimentari italiani: l’olio extravergine d’oliva, tradizionalmente tra i più esposti alle contraffazioni, il vino (è stata un’annata scarsa con il rischio di annacquamenti e adulterazioni), i formaggi, le conserve di pomodoro, ecc.

La sostenibilità va immaginata come uno sgabello con tre gambe: l’ambiente, l’etica, l’economia. Se una delle tre gambe non è in equilibrio con le altre, lo sgabello non è stabile. Un prodotto “leale” è, in qualche misura anche un prodotto sostenibile e in questo, noi cittadini, possiamo fare molto, citando l’economista Robert Reich “La scomoda verità è che la maggior parte di noi ha due menti. Come consumatori puntiamo a fare grandi affari. Come cittadini disapproviamo le molte conseguenze sociali che ne derivano“. Pertanto sostenibilità significa puntare su modelli agricoli di qualità, produzioni locali, sistemi rigorosi di controllo e tracciabilità lungo la filiera, accordi di lungo periodo coi produttori. Tutte cose che però hanno un costo. Costo che non deve e non può maschere eventuali inefficienze del sistema, ma nemmeno può essere ignorato.

 

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