Onorevole Presidente,

ho letto, online, assieme a milioni di cittadini italiani – quelli stessi che Lei rappresenta, sedendo sullo scranno più alto della Camera dei Deputatila Sua intervista a Repubblica sulla presunta “anarchia” che regnerebbe nel web.

È un’affermazione giuridicamente errata e politicamente preoccupante.

Mi permetta, innanzitutto, di segnalarLe che tutte le condotte che Lei cita a fondamento della Sua tesi costituiscono già, nel nostro Paese, fattispecie di illecito o, addirittura, di reato puntualmente tipizzate dal nostro legislatore ed in relazione alle quali esiste un apparato sanzionatorio severo e rigoroso.

Non corrisponde egualmente al vero che talune delle condotte cui Lei si riferisce nella Sua intervista – come, ad esempio, una scritta ingiuriosa su un muro – se commesse nel c.d. “mondo fisico” costituirebbero reato mentre se commesse online dovrebbero – o anche solo potrebbero – allo stato, considerarsi lecite.

Sono convinto che non Le sfugga che il web è “solo” un mezzo di comunicazione di massa e che il mezzo – per definizione – è insuscettibile di alterare il valore o il disvalore sociale e giuridico di una condotta.

Non c’è, pertanto, nessuna “anarchia” sul web rispetto alla quale sia urgente ed improcrastinabile correre ai ripari e trovare rimedio.

Le leggi ci sono e disciplinano la pressoché totalità delle azioni umane online.

La verità, probabilmente, è che quella che Lei definisce “anarchia del web” è solo la Sua personale percezione di inadeguatezza delle leggi e del sistema investigativo e giudiziario esistente rispetto alla repressione di talune condotte illecite.

È una percezione umana e comprensibile analoga, tuttavia, a quella di milioni di cittadini italiani dinanzi alla lentezza – e talvolta alla fallibilità – della macchina della giustizia nel perseguire talune condotte pure dotate di uno straordinario disvalore sociale.

Non pensa che i Suoi cittadini abbiano la stessa percezione quando vedono politici corrotti continuare indisturbati ad amministrare la cosa pubblica mentre la giustizia arranca, i termini di prescrizione decorrono e cavilli legali consentono loro di farla franca?

Non pensa che le famiglie delle tante vittime delle c.d. “stragi di Stato” abbiano la stessa percezione di assoluta impotenza dell’apparato investigativo e giudiziario del nostro Paese ogni qualvolta si ritrovano costrette a bruciare il calendario di un nuovo anno trascorso senza avere avuto giustizia?

Ogni cittadino italiano, probabilmente, almeno una volta nella vita, si è trovato a percepire il sistema normativo come inadeguato a garantirgli la tutela dei propri diritti e, magari, ha guardato proprio verso lo scranno che Lei occupa invocando l’esigenza di nuove leggi e maggiore attenzione delle Istituzioni, sentendosi, tuttavia, rispondere che quello attuale non è un Ordinamento perfetto ma è il migliore che la Repubblica sia in grado di garantire.

Se, come ritengo, quando Lei parla di “anarchia sul web” è questo che intende, tuttavia, le Sue dichiarazioni oltre a non essere – per quanto detto – giuridicamente corrette, sono, come ho anticipato, politicamente pericolose per non dire deflagranti.

Lei sembra, infatti, pensare che giacché sotto il profilo tecnologico sarebbe astrattamente possibile fare di più ovvero rendere inaccessibile in poche ore un intero sito internet o ordinare – magari senza neppure passare per un giudice – l’immediata rimozione di un contenuto pubblicato online, la legge debba, necessariamente – per scongiurare, appunto, il rischio di quella che Lei chiama impropriamente anarchia – prevedere la possibilità di far ricorso a tali strumenti da Codice militare di guerra e da corte marziale.

L’equazione secondo la quale gli strumenti di repressione degli illeciti tecnicamente possibili dovrebbero ritenersi anche giuridicamente validi ed auspicabili è, tuttavia, un’equazione perversa che minaccia alle radici i principi fondamentali dello Stato di diritto nel quale, sono convinto, Lei si riconosce.

Si tratta di un’equazione tanto più pericolosa online dove, quasi sempre, reprimere un presunto illecito, significa rimuovere un contenuto o renderlo inaccessibile sacrificando così – se la diffusione di quel contenuto dovesse poi risultare lecita all’esito di un giusto processo – la libertà di manifestazione del pensiero ovvero una delle libertà fondamentali del nostro ordinamento democratico.

È per questo che, Onorevole Presidente, Le confesso che le Sue dichiarazioni oltre ad avermi giuridicamente sorpreso mi hanno politicamente preoccupato.

Quella che Lei traccia – o forse solo sottende – è, infatti, una deriva che ha già investito, nella storia recente, decine di volte il nostro Paese come ricorderà certamente bene, tra i tanti, l’attuale ministro della funzione pubblica Giampiero D’Alia che, qualche anno fa, muovendo da considerazioni analoghe alle Sue, avrebbe voluto affidare al Ministro dell’Interno il potere di rendere inaccessibili, nello spazio di poche ore, interi siti internet, senza alcun procedimento giudiziario neppure di natura sommaria.

Spero, naturalmente, di aver completamente sbagliato nell’interpretare le Sue parole e la volontà politica che esse sottendono e mi auguro che, anche grazie alle Sue dichiarazioni, nei mesi che verranno si possa, serenamente, tornare a parlare del web ma non per invocare nuove leggi speciali delle quali non si avverte davvero l’esigenza ma, invece, per promuovere, sempre di più, la circolazione delle informazioni, dei dati e dei contenuti – naturalmente leciti – online e con essa lo sviluppo democratico ed economico del Paese.

Ringraziando Lei per l’attenzione ed il web per questa straordinaria possibilità di dialogo – mi auguro costruttivo – Le porgo i miei più cordiali saluti.

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