Il primo segnale che arriva dal nuovo ministro per i Beni culturali è un segnale incoraggiante. Massimo Bray ha accettato l’invito degli storici dell’arte italiani, e il 5 maggio sarà con loro a L’Aquila: «non per parlare, ma per ascoltare quello che ha da dire la comunità scientifica della storia dell’arte», mi ha detto.

Dopo l’arrogante indisponibilità all’ascolto di Ornaghi, anche una simile ‘normalità’ appare rivoluzionaria. Naturalmente non si tratta ancora di un ‘fatto’ (un provvedimento, una decisione) su cui basare un giudizio: per questo ci sarà tempo. Ma che il mandato di Bray inizi con la sua partecipazione ad una giornata promossa dal basso e intitolata alla «ricostruzione civile» de L’Aquila è significativo.

Ma perché domenica prossima quasi mille storici dell’arte si riuniscono all’Aquila?

Innanzitutto lo facciamo per vedere con i nostri occhi. Forse è questo il principale dovere professionale di uno storico dell’arte. E domenica vogliamo vedere con i nostri occhi la realtà (senza paragone al mondo) di un simile centro monumentale abitato che ancora giace distrutto, a quattro anni dal terremoto che l’ha devastato e a quattro anni dalle scelte politiche che l’hanno condannato a una seconda morte.

Se nell’Italia del 2013 c’è un fronte in cui lo scempio del paesaggio e la distruzione del patrimonio artistico si fondono in un unico micidiale attacco alle libertà fondamentali dei cittadini, quel fronte è L’Aquila.

La prima cosa che vogliamo dire è che L’Aquila è una tragedia italiana, non un problema locale. È questo il senso della nostra presenza fisica, è questo il senso della volontà di guardare con i nostri occhi i monumenti aquilani in rovina. L’articolo 9 della Costituzione impone alla Repubblica di tutelare il patrimonio storico e artistico «della Nazione» attraverso la ricerca: ecco, oggi la comunità nazionale della storia dell’arte è all’Aquila. Per dire che L’Aquila appartiene alla Nazione, e che la Nazione deve essere al servizio de L’Aquila.

È per questo che gli storici dell’arte devono andare a L’Aquila: per portare, attraverso i loro occhi allenati, nella coscienza intellettuale di tutta Italia che cosa è, veramente, la tragedia de L’Aquila; per avviare una vicinanza di tutta la comunità scientifica della storia dell’arte alla ricostruzione materiale dei monumenti, con tutti i problemi enormi che le sono collegati; per riscoprire la vera identità della loro missione professionale. Per comprendere, cioè, che la storia dell’arte non serve a intrattenere ricchi signori attraverso le mostre mondane della domenica pomeriggio, ma serve a restituire – attraverso la conoscenza – ai cittadini italiani l’arte e la storia delle loro città.

Mai come oggi, mentre finalmente i primi ventitré cantieri iniziano a prendersi cura di alcuni tra gli edifici monumentali del centro, è vitale che il sapere critico, la ricerca, l’insegnamento, la professionalità degli storici dell’arte siano a disposizione degli organi di tutela pubblici. E noi ci siamo.

Ma la ricostruzione della città di pietre non basta. Per questo la nostra giornata è intitolata alla «ricostruzione civile». Gli storici dell’arte sanno che la città di pietre ha senso solo se è vissuta, giorno dopo giorno, dalla comunità dei cittadini. E questo legame vitale a L’Aquila è stato volontariamente spezzato. Così, anche ammesso che, tra vent’anni, riusciamo ad avere L’Aquila com’era e dov’era, avremo una generazione di aquilani che non è cresciuta in una città, ma nelle cosiddette new town: cementificazioni del territorio senza alcun progetto urbanistico, e anzi immaginate come somme di luoghi privati. Senza spazio pubblico, senza arte, con un paesaggio violato.

Il rischio è allora che qualcuno pensi di trasformare L’Aquila ricostruita in una specie di set cinematografico, o di disneyland antiquariale, fatto di facciate e gusci pseudo-antichi che ospitano servizi turistici in mano a potenti holdings economiche. Si tratterebbe, cioè, di fare a L’Aquila in un colpo solo ciò che un lento processo sta facendo a Venezia o a Firenze: deportare i cittadini in periferie abbrutenti e mettere a reddito centri monumentali progressivamente falsificati.

Il 5 maggio gli storici dell’arte sono a L’Aquila per affermare che non basta una ricostruzione materiale: è il tempo di una ricostruzione civile.

E il fatto che il nuovo ministro per i Beni culturali sia disposto a vedere e ad ascoltare tutto questo è un piccolo segno di primavera in questo terribile, eterno inverno politico italiano.

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