È possibile che lo zar di tutte le Russie fosse fuori di sé, nell’ottobre del ’17. Pare che le sue ultime parole siano state: “Cazzo, se non c’era il telegrafo non saremmo a questo punto”. Storia vecchia, in effetti. Già nel ’400 i maggiori sovrani d’Europa deploravano la repentina diffusione dei piccioni viaggiatori, ed è probabile che in Patagonia, sulle Ande, in Amazzonia, ci siano decrepiti gerarchi nazisti che ancora danno la colpa al telefono: “Ach! Se non c’era quel maledetto aggeggio avremmo ancora i Sudeti!”. Dunque, la polemica delle forze politiche, e soprattutto del Pd, nell’Italia degli albori del XXI secolo contro Twitter non è nuovissima, e si inserisce a pieno titolo nello sconfortato stupore delle élite alla constatazione che la gente parla di loro. E a volte (questo sì che è intollerabile) con loro. Lo aveva spiegato benissimo l’albanese più famoso del mondo. John Belushi, nei Blues Brothers: “… mi era crollata la casa, il terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette…”. Ecco, ora la colpa del cedimento strutturale del maggiore partito della sinistra sarebbe Twitter, non fa una grinza. Attenzione. Non si tratta qui di tessere le lodi della rete, del suo supposto contro-potere, di argomentare a proposito magie e mesmerismi moderni e modernissimi, con il wi-fi al posto di filtri e pozioni. La rete è spesso un postaccio malfrequentato dove la gente si scambia foto di gattini e comunica al mondo che andrà, verso le 16 e 22, a comprare mutande col pizzo. È un luogo spesso sopravvalutato anche nei numeri, e lo dimostra l’ampiezza delle famose Quirinarie (28.000 persone su 8 milioni di elettori, pochine…). Ma al tempo stesso è quella cosa che dice del terremoto prima che lo dica la radio, o che la zia Pina telefoni dalla tendopoli. Se qualcuno vi chiama per dire che Gino, poveraccio, è mancato, difficilmente vi verrà da dar la colpa al telefono.

Pure, assistiamo a bizzarre manifestazioni di luddismo, alcune confinanti con l’autolesionismo. La frase “non si deve correre dietro alla base”, per citare qualche esponente Pd in questi giorni, è davvero strabiliante per chi “la base” l’ha portata a votare in massa alle primarie con tanto di versamento di due euro. È un po’ come guidare velocissimi verso un precipizio con due ali di folla ai lati della strada che ti urlano: “Occhio al burrone!”, e dire sprezzanti: “Uff! Non ascoltiamoli, acceleriamo!”. Insomma, il problema non è avere o non avere una “base” (chiunque prenda otto milioni di voti ce l’ha bella grossa), il problema è una base che parla, che dice la sua, che interviene, e che magari si rivolge direttamente ai suoi leader.

Ri-attenzione. Non si tratta qui di tessere le lodi di una famosa “democrazia diretta” che ancora non esiste in natura. Ma di avere orecchie per sentire, sensibilità per interpretare, magari anche intelligenza per distinguere tra vere analisi e umori passeggeri delle masse. Insomma, in una piccola parola: la politica. Ascoltare, valutare, distinguere, decidere tenendo conto. Nuove tecnologie che consentono ai governati di parlare più velocemente e più frequentemente con i governanti dovrebbero, specie per le forze democratiche, essere un passo avanti e non un fastidioso disturbo. Che si parli di diritti, di beni comuni o di comunicazione, viene il sospetto che anche a sinistra la parola “social” suoni come una parolaccia. Ed è proprio sulla perdita di valore – in ogni campo – del concetto di “social” che la sinistra cade a pezzi. Orribile contrappasso.

Il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2013

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