Il ruolo delle donne nel movimento di Resistenza è stato rilevante, anche se a lungo misconosciuto. Le cifre ufficiali registrano 35.000 partigiane, oltre mille sono quelle cadute in combattimento e più di duemila quelle fucilate e impiccate.

Sono dati eloquenti che contribuiscono a connotare la natura del movimento di Resistenza, ma dentro questi numeri sono ancora più importanti le scelte di vita che hanno spinto queste donne a prendere parte attiva al conflitto.

La partecipazione femminile al movimento di Resistenza è stata favorita dalla dissoluzione dell’esercito italiano l’8 settembre 1943 e dal fronte totale che attraversa quasi tutta la Penisola. L’occupazione nazista e il controllo del territorio attuato dalle forze fasciste creano – come nel resto d’Europa – uno scenario bellico dove non ci sono più una prima linea e una retrovia, ma ogni luogo può diventare improvvisamente centrale incluse tutte le abitazioni, spesso violate dagli occupanti.

Partecipare al movimento di Resistenza porta le donne a varcare quei ruoli assegnati che le confinavano in casa e in posizioni subalterne (“Mi sentivo libera, di rendermi libera”, racconta una protagonista). E’ l’emergenza che sovverte gli equilibri di genere. Si comincia sostituendo gli uomini nelle fabbriche – come successo nella Prima guerra mondiale – e si arriva alla scelta di entrare o collaborare con le formazioni partigiane accettando di mettere a rischio la vita.

Siamo di fronte a uno strappo con la tradizione. L’impegno attivo delle donne si accompagna alla definizione di una nuova prospettiva personale che guarda oltre la propria famiglia e i propri affetti. I ruoli di moglie, madre, casalinga, giovane figlia (tante sono le giovanissime anche sotto i vent’anni) finiscono in secondo piano. Davanti a tutto c’è il movimento di Resistenza che è sentito come uno strumento di riscatto personale oltre che politico e sociale.

La Resistenza smentisce lo stereotipo dell’italiano imbelle, fedele al principio “Franza o Spagna purché se magna”, ma produce un’assunzione di responsabilità che arriva fino ai giorni della liberazione quando si decide di combattere rischiando la vita anziché aspettare che siano solo gli anglostatunitensi a impegnarsi nella battaglia finale.

Dentro queste scelte forti, le donne inquadrate all’interno delle formazioni partigiane si scontrano – sia durante sia dopo il conflitto – con il costume bigotto di chi le giudica di facili costumi perché passano le notti con gli uomini. In realtà, su questo punto, la disciplina partigiana é rigida e proibisce, innanzitutto per motivi di sicurezza, relazioni sentimentali tra maschi e femmine.

Oltre a combattere, le donne esercitano la funzione di staffette. In un esercito regolare queste mansioni sono compiute dagli ufficiali di collegamento. Le staffette portano ordini, messaggi, cibo, a volte anche armi. Non potendo circolare gli uomini in età di leva, sono le donne che girano mascherando, almeno durante il giorno, le funzioni militari dietro le quotidiane commissioni domestiche.

Quello delle staffette non è un ruolo residuale, chi lo svolge sperimenta una condizione di solitudine: al buio, al freddo, sotto le intemperie, camminando per chilometri e chilometri, nelle strade e nei sentieri dei boschi. Non è una mansione che si può compiere inconsapevolmente. Il continuo rischio di essere intercettate dal nemico e di conseguenza arrestate, violentate e torturate, rende queste donne innanzitutto forti dentro, pienamente coscienti del ruolo che stanno svolgendo. Va rimarcata, per molte, proprio l’attività compiuta in solitudine, silenziosa al punto che parecchie donne nel dopoguerra nemmeno ritirano il diploma di partigiane: inizialmente la loro è una Resistenza taciuta.

Sono anche gli atti di disobbedienza nei confronti degli occupanti a fornire uno spessore a quella che è stata definita la Resistenza civile. Spesso c’è un doloroso sentimento di impotenza dinanzi a un nemico troppo forte e alle ingiustizie viste e subite. E’ il destino della popolana romana “Pina” (che ha il volto di Anna Magnani), così magistralmente raccontata da Roberto Rossellini nel film Roma città aperta, o della lavandaia Agnese nelle valli di Comacchio che salva un soldato sbandato, lavora per mantenere il marito malato, ma che è travolta dalla guerra in casa e dalle spie fasciste che le fanno arrestare il marito. E’ la trama del pluripremiato romanzo neorealista di Renata Viganò, L’Agnese va a morire, le cui vicende sono simili alle tante testimonianze orali raccolte negli anni dagli storici.

Testimonianze antiretoriche tutte al femminile si possono leggere nel libro la Resistenza taciuta (Bollati Boringhieri, 2003). Tra queste c’è quella di una partigiana (e non è un episodio isolato) che si accorge nel giorno della liberazione che fra chi in piazza acclama le formazioni della Resistenza tanti, sino a pochi giorni prima, erano stati loro nemici.

Uno slittamento nella difficile ricomposizione della società italiana del dopoguerra che nel 1946 elegge 21 donne (su 556) alla Costituente. Le aspirazioni femminili a una piena parità fra i sessi, unite a un diffuso desiderio di giustizia sociale, pur scritte nella Costituzione repubblicana, tarderanno ad arrivare, almeno per altri due decenni.    

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