Il fenomeno più vistoso dell’ultimo Salone e Fuorisalone – ma in verità se ne parla da tempo all’estero e anche in Italia – è quello etichettato come “Autoproduzione“. Il termine così formulato, e come viene almeno da noi correntemente inteso, appare ambiguo. Forse è utile provare a fare un po’ di chiarezza per evitare che si trasformi in fretta, come è accaduto a design (oppure a innovazione, sostenibilità etc), in una “parola valigia” – come dice Enzo Mari – dentro la quale ognuno mette un po’ il significato che gli pare.

Autoproduzione vuol dire che uno produce da sé ciò che progetta? Artigiano è chi esegue o collabora a ciò che è progettato da altri? Makers rappresenta una inedita condizione di progetto, produzione e distribuzione che adotta nuove tecnologie esecutive, di progetto (digitale, crowdsourcing e open source compresi), imprenditoriali e distributive (come crowdfounding e la rete web…)?

Si tratta di ipotesi chiarificatrici e classificatorie avanzate nella consapevolezza della loro parzialità; certo le modalità si possono mischiare ma alcune distinzioni aiutano. Senza per questo dire che una è migliore o peggiore dell’altra: sono solo diverse. La condizione “plurale” del design contemporaneo ne permette la legittima compresenza; la separazione serve invece a capire ciò di cui stiamo parlando.

Perché è chiaro, ad esempio, che gli artigiani ci sono sempre stati e sempre hanno dialogato con i designer. Come, ad esempio, è avvenuto storicamente nei distretti italiani, prima che – fra le altre cose – improvvide “visioni” sostenessero che era necessario far la battaglia sui costi (compresi quelli del lavoro), quindi delocalizzare e alla fine depauperare un “saper fare” che ha caratterizzato proprio il nostro sistema produttivo. Così come sono frequenti i designer-imprenditori, da Gino Sarfatti e Arteluce a Tom Dixon.

Ciò che invece è sicuramente differente sono le mutate situazioni tecnologiche, di potenzialità dei media digitali o di altri canali distributivi; forse la stessa condizione di nuovi utilizzatori, più avvertiti e sensibili, che si muovono dentro le logiche di mutevoli nicchie o tribù di consumo.

Tutto questo naturalmente ha stretta relazione con la crisi del modello economico corrente, fra l’altro segnato da un capitalismo finanziario senza respiro, dall’omologazione dei prodotti e servizi sul mercato di massa in ossequio alle logiche puramente quantitative del “vecchio” marketing, da ormai datate tattiche comunicative a base di spettacolarizzazione o star-system.

Crisi di un modello che impone e apre l’opportunità di percorrere altre direzioni. Di questo in sostanza stiamo parlando; ma per intendere e agire, aiuta forse evitare che tutto finisca sotto la rassicurante cappa-etichetta dell’Autoproduzione, non diversamente da quella che per lungo tempo è stata la comoda cappa-etichetta del Design. Perché l’artigianato è un mestiere; il designer-imprenditore per scelta o necessità e ancora il makers digitale sono altra cosa.

Se l’intenzione è anche proporre un modello complementare (o alternativo) a quello esistente, per essere davvero utili a progettisti, imprese e utilizzatori sembra necessario fornire strumenti, conoscere meglio e capire di più. Altrimenti il rischio è che tutto si trasformi solo in un’altra tendenza, in un linguaggio espressivo o una moda passeggera. Ma anche in un’occasione perduta.

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