Nell’introduzione a un bel libro, Noi siamo la rivoluzione. Storie di uomini e donne che sfidano il loro tempo, l’autore, Federico Fubini, parla della parabola di Keynes. Nel periodo della Grande Depressione negli anni Trenta il grande economista entra nel merito della “tirannia della preferenza media” attraverso una pagina di giornale che aveva trovato da qualche parte. Si trattava di un avviso per un concorso di bellezza, ma la scelta delle sei più belle – questa è la logica che regola il paradosso del conformismo – avrebbe dovuto, in realtà, sintonizzarsi sul responso della maggioranza. Non è questione di scegliere i volti che, in merito al proprio giudizio, vengano ritenuti i più gradevoli, ma quelli che l’opinione media ritiene tali. Osservò, in proposito, con finezza il grande economista di Cambridge: “Siamo arrivati al terzo grado, in cui consacriamo le nostre intelligenze ad anticipare ciò che l’opinione media si aspetta che l’opinione media sia”. Questa legge che sancisce il trionfo del conformismo può essere estesa analogicamente ai mercati finanziari, in modo particolare in un momento di crisi epocale come quello vissuto negli anni Trenta e in quello che stiamo vivendo nella nostra contemporaneità.

Ciascuno tende a investire il proprio denaro sulla base non di ciò che pensa, ma di ciò che presume gli altri pensino, in una sorta di “inseguimento” circolare dell’opinione media. Qual è la linea di fuga rispetto a una tale situazione standardizzata? L’anticonformismo, la capacità e il volontarismo individuale, la logica dell’innovazione che passa, in primo luogo, dentro noi stessi con una reazione esplicita alla tirannia del conformismo.

La valorizzazione dell’anticonformismo è senza dubbio uno spunto interessante, anche se viene accompagnato da una visione edulcorata della globalizzazione e dei suoi effetti perversi. Si tratta, in ultima istanza, di una soluzione improntata sull’individuo, sulla sua capacità volontaristica, in grado di oscurare la funzione regressiva esercitata da una globalizzazione omologante. E’ necessario partire, invece, da una democratizzazione effettiva della globalizzazione che impone scelte coraggiose a livello politico: in gioco non vi è solo il paradigma conformismo/anticonformismo – una logica contrassegnata da un intellettualismo volontaristico troppo radicale.

Il vero tema è quello del rapporto tra etica ed economia. Bisogna tornare a rileggere con serietà Adam Smith, fra i più citati e i meno letti dei maestri dell’economia classica. Come hanno sostenuto autorevolmente Amarthia Sen, Donald Winch e Giovanni Arrighi, bisogna distruggere quel pregiudizio interpretativo in base a cui Smith sarebbe stato un sostenitore e un teorico della capacità del mercato di autoregolarsi all’infinito.
In realtà una lettura attenta della Ricchezza delle nazioni, della Teoria dei sentimenti morali e delle inedite Lezioni sulla giurisprudenza dimostra come anche in Smith lo Stato debba essere in grado di riprodurre le condizioni necessarie per l’esistenza del mercato stesso.

E’ necessario tornare a ristabilire il nesso etica ed economia: il prius è di carattere etico, solo in subordine sussiste l’economico. La degenerazione presente è da attribuirsi al capovolgimento di questa sequenza. Solo in un secondo momento possono intervenire la capacità, il talento individuale, il coraggio della sfida, l’anticonformismo innovativo, ossia solo all’interno di un quadro valoriale che ha ristrutturato l’esatta collocazione dei ruoli, in primo luogo, l’etica, l’equità e, solo in secondo, l’innovazione. Altrimenti si finisce per regredire a un’interpretazione della globalizzazione fine a se stessa che cancella differenze e diritti, sancendo vincitori e vinti sulla base di una competizione già viziata in partenza.

 

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