Leggo che Marc Jacobs ha compiuto 50 anni. E si è premurato di avvertire la stampa mondiale che avrebbe trascorso il compleanno in Brasile per godersi sole, spiagge, bella vita. La cosa non sorprende, si tratta pur sempre di uno stilista di successo e ciò rientra perfettamente nel cliché. Fa più effetto scoprire che, secondo la classifica di Time, Jacobs risulta tra i cento uomini più potenti della terra. Qui uno può chiedersi: e che avrà mai fatto di importante questo Jacobs? Ha forse inventato qualcosa, trovato una geniale soluzione per migliorare la vita dei suoi simili? Macchè, ha disegnato vestiti. E poi per venderli ha affinato una tecnica di provocazioni (cui la stampa ha sempre dato un grande risalto) grazie alle quali si è guadagnato il titolo di “artista”. Io, per l’esperienza che ho maturato nel settore, dico che Jacobs è stato semplicemente un figlio della sua epoca. Un’epoca così folle da trasformare un venditore di vestiti in un “potente della terra”.

Quando Jacobs nasceva nel 1963 a New York, Giorgio Armani lavorava alla Hitman, in un modesto ufficio a 250.000 lire al mese, selezionando tessuti, Gianni Versace muoveva i primi passi facendo la collezione alla Callaghan di Novara, Gianfranco Ferrè lavorava per il grande Giorgio Borelli, e già allora operavano in India, dove forse per primo aveva intuito che si dovesse produrre il tessile, e costruivano già a quei tempi due affermate Collezioni la Courlande e La Ketch. Se Borelli non fosse morto su una spiaggia di Madras, sarebbe diventato un gigante mondiale più e prima di Benetton, che a quei tempi aveva già aperto il suo primo negozio a Cortina. Allora nasceva uno stilista al giorno, erano le stesse Banche, che oggi negano un fido di 5mila euro all’artigiano, a cercare piccoli marchi e investirci miliardi per poi metterli a bilancio a cifre stellari.

Perché un settore povero come il tessile, è potuto diventare un business miliardario? Io mi sono convinto che si sia trattato di una precisa scelta politica ed economica legata alla Guerra Fredda. Molto semplicisticamente: vorrei dire che tanto consumo di lusso e un investimento massiccio su un settore primario come il vestire era funzionale a diffondere la convinzione che da questa parte del Muro ci fosse ricchezza e felicità per tutti. Le trasmissioni delle radio clandestine dovevano mostrare alla massaia Russa tutti i “privilegi” di cui godevano le americane e occidentali, tra cui importantissimo il vezzo del vestire.

C’era indubbiamente della genialità nei designer, e noi italiani siamo stati i migliori. Ma erano tutti figli di quelle scelte obbligate che hanno fatto indebitare l’intero occidente, provocando la nascita di nuovi modelli di vita e sacrificando ad essi altrettanti valori. Si viveva una follia collettiva su tutte e due le sponde dell’Atlantico. I consumi non nascevano da una reale domanda di un bene, si consumava per divertirsi. La Moda era perfetta, un’industria del sogno come il cinema, gli stilisti non erano più disegnatori di abiti e camicette ma “artisti del futile”, star dello show business. E ciò non si è fermato con la caduta del Muro ma è proseguito come un’onda lunga fino ad oggi. Ora che i nodi sono venuti al pettine, non a caso la Moda è in crisi di identità profonda, e le ultime sfilate sono passate quasi sotto silenzio.

Se i tailleur di Chanel sono ad oggi ineguagliabili, se il trench militare è un capo eterno, se certi tagli di Armani e Valentino hanno ispirato il vestire di milioni di persone, cosa rimarrà delle produzioni di Jacobs? Egli è solo uno dei tanti figli fortunati di un’epoca folle.

Post scritto in collaborazione con Alox Cross Media Player

 

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