Su una panchina in marmo ci sono due ragazzi che bevono birra. Vicino uomini e donne in attesa. Chi parla, chi ascolta musica, chi legge il giornale. Aspettano i tram che fermano qui. Il 2, il 3, il 5, il 14 e il 19. Nelle vicinanze c’è il “casotto” dell’Atac e la biglietteria automatica. Siamo a Piazza di Porta Maggiore, a Roma. La stazione Termini, da un lato, e Piazza San Giovanni, dall’altro, non sono lontane. Sui marciapiedi, tra le sedi delle rotaie, ci sono le aiuole, curate, che il servizio giardini del Comune recentemente ha provveduto a rifare. Come segnalano i cartelli che campeggiano all’interno. La Porta Maggiore, dalla quale la piazza ha preso il nome, svetta altissima, quasi al limite dello spazio semipedonale.

E’ costituita da due arcate degli acquedotti di Claudio, monumentalizzati nel punto nel quale scavalcavano le via Labicana e Prenestina. Divenuta una vera porta solo quando fu inclusa nelle Mura Aureliane. Appare come una sorta di grande arco a due fornici in travertino, nei piloni della quale si aprono finestre con timpano e semicolonne. Intorno una bassa recinzione metallica la perimetra. Impropriamente, la musealizza. Immediatamente all’esterno, su uno dei lati brevi, ci sono due bagni chimici, di un colore celeste che non fa nulla per nascondersi, a servizio degli utenti del trasporto pubblico e dei dipendenti. Dentro il recinto, quasi in corrispondenza dei due angoli tre cipressi e un alloro. Qua e là si riconoscono alcune bottiglie di vetro e cartacce di ogni tipo. A terra, l’erba è abbastanza alta per lasciare appena affiorare i resti dell’antiporta in opera laterizia, a ferro di cavallo, scoperta nel corso dei lavori realizzati tra il 1955 e il 1959. Così come brevi tratti del basolato delle due vie che si biforcavano poco prima della porta.

Attraversati i binari che sotto passano uno dei fornici laterali e raggiunto uno dei marciapiedi ci sono i resti di una struttura a blocchi di tufo rosso dell’Aniene di opera quadrata. Sono i resti dei piloni dell’Acqua Marcia, l’acquedotto del 144 a. C. Vicino, quasi a segnalarlo, l’Atac ha provveduto a piazzare una palina che indica una fermata. Oltrepassata la sede dei binari si raggiunge l’estremità del complesso antico. Soprelevata rispetto al piano attuale c’è un’ulteriore recinzione metallica. All’ingresso c’è un cartello che vieta l’ingresso sottolineando il pericolo. Un’occhiata dentro è sufficiente per rendersi conto che il pericolo è reale. Soprattutto, che perdura da tempo immemore. Come indizia chiaramente lo stato delle due strutture in opera reticolata contraffortate da tubi innocenti e palanche in legno. Sulle quali è stata appoggiato anche il telaio di una bicicletta. Tubi innocenti arrugginiti, in alcuni punti piegati addirittura. Anche dalla vegetazione infestante che cresce quasi senza ostacolo.

Passando sul lato che affaccia su Piazzale Labicano, lo spettacolo non cambia. La porta, è altissima, imponente. Straordinariamente bella. In alto, sull’attico, a tre fasce sovrapposte, si vedono i canali dei due acquedotti che s’incontravano in questo punto. L’aqua Claudia e l’Anio Novus. Si leggono qui, forse meglio che sul lato opposto, le iscrizioni di Claudio, quella di Vespasiano e quella di Tito.

Anche qui la bassa recinzione metallica perimetra lo spazio intorno al monumento. Al quale si addossa un sepolcro a pianta trapezoidale, rivestito in travertino. Nel quale era inserito il grande rilievo marmoreo con i ritratti a grandezza naturale dei proprietari della tomba, ora ai Musei Capitolini. Il celebre fornaio Marco Virgilio Eurisarce e sua moglie. Monumento questo ulteriormente recintato.

In corrispondenza del fornice maggiore della Porta, all’esterno della linea della recinzione, sono due tratti del basolato della Via Prenestina. Più incassati rispetto al piano moderno. Anch’essi “protetti” da una recinzione metallica. Che non impedisce di gettare all’interno cicche di sigarette, bottiglie di vetro e cartacce.

Ovunque manca qualsiasi tipo di pannello con l’indicazione dei resti. Una segnalazione sulla loro consistenza. Non c’è nulla che ne richiami l’esistenza. Quasi derubricati ad un fondale urbano. Anzi storico. Niente di più. Mentre l’Atac in quel luogo ha da decenni impiantato un importante snodo della linea tranviaria romana. Includendo quella parte di città nel sistema di trasporto su rotaia. Un’inclusione che sembra aver comportato un’esclusione. Quella della Porta. Del suo intorno. In questa zona nell’antichità romana esisteva un tempio dedicato “alla speranza Vecchia”. Subito fuori della Porta Praenestina nell’età imperiale c’era il Vivarium, una specie di giardino zoologico, dove venivano ospitate le fiere destinate ad essere esibite nell’anfiteatro. Ora in quel quadrante di Roma, l’archeologia sembra aver perso ogni speranza di avere il rilievo che merita. E lì dentro i recinti che nel passato hanno ghettizzato quel pezzo di Roma non ci sono più le fiere del Vivarium ma soltanto monumenti.  

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