«Cosa intende per nazione, signor ministro? Una massa di infelici? Piantiamo grano, ma non mangiamo pane bianco. Coltiviamo la vite, ma non beviamo il vino. Alleviamo animali, ma non mangiamo carne. Ciò nonostante voi ci consigliate di non abbandonare la nostra patria. Ma è una patria la terra dove non si riesce a vivere del proprio lavoro?». E’ la risposta ad un ministro di un emigrante italiano del XIX secolo, uno dei 29 milioni di italiani che hanno deciso di andar via negli ultimi due secoli superando il numero degli italiani censiti all’indomani dell’Unità d’Italia. Perché ci si meraviglia ancora dei fischi ai rappresentanti delle Istituzioni ai funerali di disperati nostri vicini di casa?

Avete riflettuto sul fatto che i parassiti non emigrano mai? Sono solo coloro che ritengono di poter far conto sulle proprie capacità ad andar via, necessariamente. E con questo concorrono a perpetuare un circolo vizioso che rende i parassiti influenti nel Paese, resistenti al cambiamento, forti delle leggi che hanno promosso attraverso i loro rappresentanti, attraverso cui difendono sprechi e privilegi, sempre a rigore di legge e a debito (pubblico), rubando così il futuro di intere generazioni.

E’ più facile che i parassiti si annidino, ancorché sotto forme privatistiche, a valle della spesa pubblica: per questo la riduzione decisa della spesa pubblica clientelare e parassitaria, grande assente nei programmi dei partiti, è la risposta che invano si attende per moralizzare la vita pubblica e invertire la tendenza.

Oggi l’emigrazione è più qualificata che nei duri ed austeri secoli passati quando era la paura di morire di stenti ad indurre a emigrare. La nostra società è più subdola, ma non meno crudele: può bastare la burocrazia, un’Equitalia di queste a generare tanta paura di vivere. La fuga dei cervelli non è quindi un problema, ma -almeno per ora- l’unica soluzione.

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