Ci siamo, caro Enzo. Don Roberto Davanzo, direttore della Caritas ambrosiana, la sua omelia la inizia così: “Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale/ per vedere se la gente poi piange davvero”. Ecco, quel momento è arrivato. Siamo in tanti e la commozione di tutti è vera. Per dare l’ultimo saluto a Enzo Jannacci, che ha smesso di cantare venerdì scorso a 77 anni, alla basilica di Sant’Ambrogio sono arrivati gli amici musicisti dal nome famoso e i barboni senza casa e senza nome, quelli per cui Enzo cantava El purtava i scarp del tenis. La cantava in milanese. Dialetto trasformato in “esperanto dell’emarginazione e della denuncia di ogni indifferenza”, dice don Davanzo davanti al sindaco Giuliano Pisapia in fascia tricolore e a Roberto Maroni nuovo presidente della Regione. Sì, a Jannacci piaceva cantare nella lingua del popolo e dei senza potere, nella Milano “con il coeur in man” uscita dalla guerra ed entrata nel “boom economico”. Quello stesso dialetto è poi stato capovolto nella lingua degli slogan localisti e razzisti. Chissà se c’è ancora, la Milano di Jannacci. “Chissà se è vero/ chissà se è vero/ che insieme agli anni va via anche l’amor”. Il mondo di Enzo, ricorda l’omelia, era popolato di emarginati. Non solo il “barbun cont i scarp del tenis”, ma il “ragazzo padre” che chiede la carità, il villano di Ho visto un re, il tossico di Se me lo dicevi prima

I milanesi arrivati a salutare quello strano concittadino che sapeva sempre stupirli occupano la navata e riempiono anche il cortile esterno della basilica. Giorgio Vittadini, amico di Enzo fino all’ultimo (“Era un grande uomo”), legge un brano del libro della Sapienza. Valentina Oriani, accompagnata da una chitarra, durante la messa canta musiche sacre e canzoni religiose. Alla fine, una tromba e un flicorno lanciano una struggente versione strumentale di Vincenzina. “La carità ha bisogno di poeti”, dice don Davanzo, moltiplicando le citazioni dalle sue canzoni. Ma Jannacci non è stato solo un poeta, stralunato e imprevedibile. È stato un grande artista sempre controcorrente, che ha scoperto il rock (con Tony Dallara, Adriano Celentano, Giorgio Gaber) quando in Italia trionfava la canzonetta, che ha suonato il jazz (con Stan Getz, Gerry Mulligan, Chet Baker, Franco Cerri) quando a Sanremo amore faceva sempre rima con cuore, che ha inventato il cabaret (con Dario Fo, Cochi e Renato) politico e anticonformista, che nel 1968 viene censurato dalla Rai perché vuole presentare Ho visto un re a Canzonissima, che nel 1981 è di nuovo censurato perché recita: “La televisiun la t’endormenta cume un cuiun”. Cantava canzoni che parlavano di partigiani (Sei minuti all’alba, ma anche il Ma mi di Giorgio Strehler), di gente di periferia (El me indiriss, oppure Veronica, con testo di Dario Fo e Sandro Ciotti), di donne perdute (la bellissima M’han ciamà), di malfattori improbabili come il palo dell’Ortica, di terroni “vegnu giò con la piena” e arrivati a Milano (Ohe! Sun chì), di operaie (Vincenzina e la fabbrica).

I senzadimora in chiesa indossano con orgoglio il pettorale di quello che è diventato il loro giornale, Scarp del tenis. Per un giorno sono accettati e coccolati, domani torneranno a essere “roba minima, roba de barbun”. Alla fine del rito, Maroni e le autorità se ne vanno, escono dalla chiesa i gonfaloni della città, della regione e del suo Milan. Pisapia va ad abbracciare la moglie Giuliana e il Paolino, che a differenza di tanti figli di è bravo quanto il padre e che non finisce più di salutare, abbracciare, baciare, consolare ed essere consolato. Quando la bara esce dalla basilica, per il viaggio finale verso il Famedio, dove riposano i milanesi illustri, parte l’ultimo applauso.

Il Fatto Quotidiano, 3 aprile 2013

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