Il 4 aprile 1968 veniva assassinato, a Memphis, Martin Luther King, premio Nobel per la pace, paladino dei diritti civili e dell’integrazione dei neri durante un comizio a favore del leader democratico Robert Kennedy, anche lui ucciso alcuni mesi dopo.

L’integrazione degli afroamericani conosceva ancora molti ostacoli, come denunciarono con silenzioso clamore – nell’estate dello stesso anno – i velocisti neri Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente primo e terzo nei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico. I due atleti, durante l’inno statunitense che accompagnava la premiazione, rimasero fermi con il pugno chiuso dentro a un guanto nero, per denunciare la discriminazione razziale che ancora imperversava nell’America del democratico Lyndon Johnson, nonostante le sue politiche antisegregazioniste.

Nel corso di quarant’anni si è compiuta una lunga marcia nel cammino dell’integrazione che ha portato l’afroamericano Barak Obama alla presidenza nel novembre 2008 e addirittura alla sua rielezione nel 2012 (in quest’ultima cerimonia di insediamento il presidente ha giurato su una bibbia di Martin Luther King). Importanti molte tappe intermedie, come la candidatura alle presidenziali – nel 1984 e nel 1988 – del reverendo nero Jesse Jackson, il ruolo di Segretari di Stato – nei due mandati presidenziali di George W. Bush – assegnati a Colin Powell e a Condoleezza Rice. Altri elementi simbolici sanciscono il compimento di un cammino: gli afroamericani sono diventati parte dello star system televisivo e hollywoodiano, sono eroi consacrati nello sport e dal 2000 tutti gli Stati federali osservano la festa del terzo lunedì di gennaio del Martin Luther King day, istituita negli anni Ottanta da Ronald Reagan, ma non celebrata subito ovunque.

Due tra i principali cardini della politica interna di Obama in questi quattro anni sono stati la riforma sanitaria e l’accesso all’istruzione, anche ai gradi superiori, favorita da un programma di borse di studio. Sanità e scuola sono infatti due aspetti nei quali ancora si misura il divario tra bianchi e neri. Gli alti costi di accesso al servizio sanitario penalizzano maggiormente gli afroamericani che rappresentano la parte più povera del Paese, con una più alta probabilità per le donne di morire di parto o per gli infartuati di non essere adeguatamente curati. In percentuale, è maggiore la quota dei disoccupati neri rispetto ai bianchi ed è invece inferiore la scolarizzazione giovanile degli afroamericani, più facilmente avviati ad umili (e oggi precari) lavori.

Già questi indicatori mostrano quanto ancora resti da fare, ma c’è un’altra parte di diritti civili che non richiede un intervento di spesa pubblica, ma di ordine legislativo. Il rapporto 2012 di Amnesty International sugli Usa segnala legislazioni discriminatorie nei confronti dei migranti latini in alcuni stati del Sud, come l’Alabama, già fino agli anni Sessanta tra i più intransigenti stati segregazionisti.

Quanto ai diritti dei minori, gli Usa sono l’unico Paese, assieme alla Somalia, a non avere firmato la Convezione delle Nazioni unite sui diritti dell’infanzia. L’interesse ora dichiarato dagli Usa è un segnale di svolta, per uno Stato che ha sempre teso a non fare distinzione tra un reato commesso da un adulto e un reato compiuto da un minorenne (è noto il caso di Jordon Brown in Pennsylvania che ha rischiato di essere processato come un adulto per un reato commesso a 11 anni).

E’ ancora eccessivo l’uso della forza da parte della Polizia (durezze sono state denunciate anche dal movimento pacifico Occupy Wall Street). Nel 2011 ci sono stati 43 uccisi (quasi sempre persone disarmate) da parte della polizia  a seguito dell’impiego di taser, un’arma ad impulsi elettrici che solo teoricamente non dovrebbe causare la morte.  Allo stesso modo, il rapporto di Amnesty segnala che “non è stata fatta giustizia per le violazioni dei diritti umani commesse sotto l’amministrazione del presidente George W. Bush, nel contesto del programma di detenzione segreta” legato alle guerre in Afghanistan e in Iraq, i cui abusi hanno scandalizzato larga parte dell’opinione pubblica mondiale e statunitense.

Ad Obama nel 2009 è stato assegnato il premio Nobel per la pace, senz’altro prematuro in quanto giunto all’inizio del suo primo mandato e non dopo una valutazione complessiva delle sue strategie nel tempo. Di certo il presidente sta  cercando di tirarsi fuori dai conflitti, visti gli elevati costi, e l’effetto perverso della dottrina Bush che volendo esportare la democrazia non l’ha certo impiantata nei Paesi occupati e, anzi, ne ha ridotto gli spazi in America.

Il cammino dell’integrazione e dei diritti civili, se formalmente appare compiuto, in realtà non lo è ancora. Le condizioni di vita della gente comune sono andate peggiorando con lo smantellamento dello Stato sociale compiuto in tre decenni di politiche neoliberiste. Si è così aperto un percorso a ritroso che la crisi del 2008 ha reso ancora più drammaticamente evidente.

La maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, detenuta dai repubblicani fautori del liberismo, è da ostacolo a politiche riformatrici che riaprano opportunità per tutti. Il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz denuncia nel suo ultimo libro (Il prezzo della diseguaglianza, Einaudi) gli Stati Uniti come il paese ad avanzata economia con la maggiore diseguaglianza del pianeta. In queste condizioni è difficile esercitare i diritti. Dalla bibbia di Martin Luther King, Obama ha raccolto uno scomodo testimone: superato il pregiudizio razziale, occorre rinsaldare la comunità in altro modo spezzata dall’economia.

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