Nel maggio del 2006 l’Unità decise di celebrare l’ascesa di Giorgio Napolitano al Quirinale con il titolo “Buongiorno Presidente”, che a me parve molto bello e augurale, anche perché all’epoca ero io a dirigere il giornale. Col senno di poi, forse avrei dovuto moderare l’entusiasmo. Del resto, poche settimane prima, nella notte dei famosi ventiquattromila voti di scarto fra l’Unione di Prodi e la destra, ne avevo combinata un’altra, sparando a tutta prima pagina: “Berlusconi Addio”, e si è visto poi come è finita.

Anche se altri titoli mi sono riusciti meglio, a quel ricordo giornalistico di sette anni fa è legato un episodio che, seppur minimo, aiuta a decifrare il personaggio Napolitano alla luce anche dei suoi ultimi atti di imperio che qualcuno paragona a un golpe bianco. Dunque, con i colleghi dell’Unità decidemmo di stampare quella pagina augurale su una lastra di zinco debitamente incorniciata a imperituro ricordo e di apporvi gli autografi di tutti i giornalisti e lavoratori del quotidiano fondato da Antonio Gramsci e di cui l’autorevole dirigente comunista era stato una firma apprezzata. Poi, presi dall’entusiasmo, chiedemmo al portavoce Pasquale Cascella di poter consegnare direttamente nelle mani del nuovo capo dello Stato il prezioso oggetto. Cortese, Cascella mi assicurò che si sarebbe fatto latore della richiesta.

Non ne sapemmo più nulla, ma non certo per responsabilità di Cascella. Qualche tempo dopo, nel congedarmi dall’Unità, feci recapitare lo sfortunato omaggio al Quirinale, dove penso giaccia ancora in qualche augusto ripostiglio. Tracce di Napolitano, prima dell’imprevista ascesa al Colle, ne avevo avute quando, sempre tramite Cascella, allora notista politico dell’Unità, egli mi recapitava suoi densi saggi di non facile lettura sui problemi dell’Europa, che io provvedevo a mettere in pagina per rispetto al grande leader di partito destinato all’oblio, com’era opinione comune.

Ecco, penso che lo straordinario sussiego con cui Napolitano ha interpretato il suo settennato sia anche frutto di quella marginalità a cui era stato condannato da personaggi che probabilmente considerava (e considera) dei nanerottoli, politicamente parlando e sui quali, successivamente, si è preso una lunga e gelida rivincita. Penso che non abbia tutti i torti, perché pur con le numerose colpe che il Fatto non ha mai smesso di rimproverargli, Napolitano appare come un gigante del pensiero, soprattutto se paragonato ai suoi ex compagni di partito.

A ben guardare, infatti, anche il mezzo incarico conferito a Pier Luigi Bersani appare come l’ultimo sgarbo nella lunga storia di sgarbi e di ruggini che ha diviso la sinistra italiana. Ma proprio come in molte storie di sinistra, questo rancore viene dissimulato dietro tonnellate di osanna e salamelecchi. Un culto della personalità che non ha paragoni nelle democrazie occidentali. Per esempio, l’ossessiva e piagnucolosa insistenza con la quale si chiede a Re Giorgio di restare sul Colle per un altro mandato fa venire in mente l’ode dedicata al dittatore nordcoreano Kim Jong-Il, erede di Kim Il-sung i cui versi cantano: “Non possiamo vivere senza di te / il nostro Paese non può esistere senza di te”. È incredibile, i politici italiani non sanno vivere senza Napolitano e, più lui si ritrae apparentemente infastidito, più essi si stracciano le vesti: resta con noi! Ma allora come si spiega questa adorazione con le ruggini di cui sopra? È semplice. In tutti questi anni Napolitano ha fatto da scudo a una classe politica tra le più screditate e impopolari.

È stato a causa di questa gigantesca coda di paglia che abbiamo dovuto sorbirci cori di giubilo e peana ogni volta che dal Quirinale giungevano tra tuoni e saette, i famosi moniti: lodi a cui invariabilmente seguivano gli identici comportamenti così inutilmente monitati. L’estasi è giunta al punto che nell’ultima consultazione abbiamo ascoltato il vicesegretario Pd Enrico Letta, esclamare (senza ridere) una frase del tipo: ci affidiamo completamente a Lei, Presidente, con lo stesso trasporto di Papa Francesco quando si rivolge all’Altissimo.

Tanta devozione non è però servita a impedire la suprema beffa dei cosiddetti Saggi che, con la stravagante non soluzione della crisi di governo, ha condannato il povero Bersani in un ridicolo limbo, visto che l’incarico Napolitano non glielo ha dato, ma neppure glielo ha tolto. Difficile che questa volta lo smacchiatore di giaguari la mandi giù: infatti tra i Democratici i mugugni si sprecano. È vero che anche Berlusconi e Grillo alzano la voce contro le commissioni che servono solo a prendere (e a perdere) tempo. Ma l’inquilino del Colle sembra intenzionato a non mollare “fino all’ultimo giorno”, poiché sembra assodato che fino all’ultimo giorno di Napolitano non ci sarà un governo Bersani. A meno che Bersani non mandi giù il disgustoso intruglio di un patto Pd-Pdl. A sinistra la vendetta è un piatto che va servito freddo, molto freddo.

il Fatto Quotidiano, 2 Aprile 2013

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