Giovedì sera sono stato ospite della trasmissione Servizio Pubblico per presentare il mio nuovo libro sulla disuguaglianza. Ho illustrato i rischi dell’assenza di un esecutivo forte che abbia la capacità di rasserenare i mercati e allo stesso tempo proporre sei provvedimenti urgentissimi: istituire il reddito minimo garantito, promulgare leggi anticorruzione e sul conflitto d’interessi, riformare la giustizia amministrativa e la legge elettorale, e accrescere la tassazione sul patrimonio e la ricchezza. Poi ho denunciato la vuotezza del dibattito che avevo ascoltato.

Ho accusato Sgarbi di narcisismo, con riferimento alla sua smania di voler dimostrare che ‘lui è uno che legge’. Ho ricevuto centinaia di messaggi di elogio, tuttavia nel consenso generalizzato al mio intervento, le parole di due voci fuori dal coro mi hanno fatto molto riflettere. Anche io ho peccato di narcisismo. Fiaccato da un lungo viaggio, irritato da due ore di dibattito sterile, non ho parlato con la giusta umiltà. Ho scelto di contrappormi alla vuotezza delle argomentazioni di Sgarbi, invece che sfruttare la platea di Servizio Pubblico per dialogare con il paese reale.

Quel paese in cui ci sono undici milioni di pensionati che campano con 500 euro al mese, quel paese in cui ci sono quattro milioni di lavoratori atipici che non hanno una vera protezione sociale, quel paese in cui ci sono milioni di disoccupati che hanno perso la speranza di trovare un lavoro, quel paese che appassisce incartato da una burocrazia ipertrofica e disfunzionale, quel paese in cui molti imprenditori chiudono bottega perché lo stato e’ in ritardo sui pagamenti. Quel paese in cui pochi godono di stipendi elevatissimi ed immeritati, quel paese in cui 10 cittadini guadagnano quanto i 3 milioni più poveri, quel paese stanco della retorica narcisista, auto-riflessa e sempre inutilmente polemica incarnata alla perfezione da Sgarbi, quel paese in cui pochi hanno troppo e troppi hanno niente.

Invece di parlare come un arrogante tribuno della plebe, avrei dovuto incarnare la voglia di cambiamento, la voglia di ripartire di chi sta peggio: quei 25 milioni di elettori potenziali che identifico nel mio libro come la base maggioritaria per il cambiamento. Quella maggioranza silenziosa che nessuno ha mai provato a mettere insieme per trasformare il paese.

Non ce l’ho fatta. Il mio orgoglio ha prevalso sulla lucidità del ricercatore. L’idea di redistribuzione deve essere portata avanti dalla coscienza del noi, rimpiazzando quella dell’io. Siamo troppo innamorati di noi stessi e dei nostri piccoli privilegi per renderci conto che c’e’ un paese che muore ogni giorno. Tutti dovremmo approfittare delle occasioni di dibattito pubblico per mettere al centro il noi, il sentire comune in contrapposizione al narcisismo e all’egocentrismo. Non e’ un caso, che giovedì da Santoro solamente una donna, la senatrice Puppato, sia riuscita a farlo con garbo e intelligenza. Per questo le rendo merito. Grazie per la sua voce calma e riflessiva, grazie per aver riportato la discussione sul tema della redistribuzione. Lo faccia ancora, ogni giorno, in Senato e nel suo partito. Un partito che da troppo tempo ormai, ha smarrito la strada che porta all’uguaglianza.

Il narcisismo del singolo chiede con arroganza risposte a problemi individuali, la coscienza del noi chiede con umiltà di guardare a un paese smarrito, con la consapevolezza che ci sono solamente risposte collettive alla crisi nella quale ci siamo cacciati. Non ci serve un primo ministro che salvi il paese, ma una collettività più consapevole dei suoi errori passati e che è pronta a cambiare.

Voglio chiudere tornando al pensatore che Sgarbi ha citato. Quel Tommaso Campanella nato nella mia terra, a Stilo, una zona che trasuda bellezza. Bellezza dalla quale Campanella ha tratto sicuramente ispirazione. Una bellezza non da ostentare ma da condividere e valorizzare con umiltà. Caro Sgarbi, forse è il caso di tornare al noi ricacciando l’io, proprio come ha sottolineato il filosofo che tanto ama: “Nessuno domina a sé solo, e a pena un solo ad un altro solo signoreggia. Il dominio dunque richiede unità di molti insieme, che si dice Comunità”. 

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