Enzo Jannacci, ovvero la contraddizione più coerente che abbia mai calcato un palcoscenico. Perché con la sua aria da mattoide, con quella parlata biascicata e apparentemente incomprensibile, con le movenze di un Buster Keaton un po’ schizzato, con le sue fughe e i suoi improvvisi ritorni, è riuscito a stare, con un rigore che hanno avuto pochi, sempre dalla stessa parte: dalla parte degli sfigati, degli ultimi, dei disgraziati, dei terroni venuti da lontano, degli operai sconfitti e degli amori andati a male.

Ad esempio, dalla parte del barbone in scarpe da tennis: uno che, per intenderci, veniva scansato dagli abitanti di una Milano fredda e distante anche da cadavere. Perché Jannacci ha cantato l’amore per la povera gente, e di conseguenza anche il suo contrario: l’indifferenza. O dalla parte di quello che girava per le vie del centro di Milano guardando le vetrine come se fosse Natale e sognando la torta per i fioeu. I protagonisti delle sue canzoni non sono mai stati eroi, ma umanissimi perdenti. Tipo quell’altro tale che sta per essere fucilato dai nazifascisti, e che non sogna di certo una morte da martire: vorrebbe essere, in quegli ultimi sei minuti all’alba, da qualsiasi altra parte salvo che lì, davanti al plotone di esecuzione.Tu ascolti, e non sai se ridere o se piangere. Questa è un’altra delle grandi, irripetibili magie di Jannacci: il sapere pigiare, contemporaneamente, il tasto della comicità, dell’ironia, del non sense, e della tragedia, della disperazione, dell’amarezza.

E’ stato detto che il comico è il tragico visto di spalle. Enzo è uno che, nelle sue cose migliori, ha saputo farci vedere nello stesso istante spalle e busto, comico e tragico. Era uno che sosteneva che la comicità nasce dall’esclusione, dalla negazione, dal “No, tu no”: “tu che neghi le Marlboro, forse adesso hai capito come nascono i comici”, ha cantato in quello straordinario delirio in musica che è “Son Sciopàa”. Ora se n’è andato per sempre, e verrà ricordato, celebrato, riscoperto. Giusto. Ma è anche così che si anestetizza e si neutralizza chi è fuori dal coro, disturba e dice cose sgradite ai benpensanti e ai moralisti. E allora, io lo ricordo così. Un ragazzo con la voce gracchiante, magro come un chiodo e con i capelli arruffati che si presenta davanti ad una giuria Rai per un provino, e canta un brano folle, “Il cane con i capelli“. E’ il novembre 1961. Come valutò, la Rai, quel giovane occhialuto? “Inidoneo a cantare”. Ciao, Enzo.  

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