Generalmente questo blog parla di migranti, ma oggi ho deciso di fare un’eccezione…

Martedì 26 marzo Shahnaz Nazli, maestra pachistana di 41 anni, è stata assassinata mentre si recava nella scuola femminile in cui insegnava. Gli assassini l’avrebbero brutalmente abbattuta da una motocicletta in corsa con ripetuti colpi di arma da fuoco. Un dramma che si è consumato a poca distanza, sia geografica che temporale, dall’operazione armata dei talebani contro Malala Yousafzai, la ragazzina pachistana che lottava per il diritto delle donne afgane all’istruzione, a cui la stampa ha dedicato ampio spazio in tutto il mondo.

Un episodio di rilevanza politica, che si aggiunge al sempre crescente numero di violenze che hanno coinvolto il nord-ovest del Pakistan in previsione delle elezioni del prossimo 11 maggio. Ma soprattutto l’ennesimo caso di violenza di genere, contro una donna che ha scelto di dedicare la propria vita a un diritto negato a molte: la possibilità di avere un’istruzione, di acquisire consapevolezza delle proprie capacità e la coscienza di poter essere padrona della propria persona e della propria esistenza.

Un avvenimento drammatico, che non può essere più considerato come un fatto a sé o come una piccola tragedia lontana dal nostro Paese e dalla nostra cultura, che poco riguarda la nostra quotidianità.

“In tutto il mondo le donne tra i quindici e i quarantaquattro anni hanno più probabilità di essere uccise o menomate dalla violenza maschile che dal cancro, la malaria, la guerra e gli incidenti automobilistici messi assieme”, scrive il settimanale Internazionale dell’8 marzo riportando un virgolettato di Nicholas D. Kristof, noto giornalista statunitense che ha più volte affrontato il tema.

La violenza contro le donne è sempre stato e continua a essere un problema globale, senza distinzione di cultura, provenienza geografica, grado d’istruzione e condizione economica.

Uno schema che ritroviamo nell’incredibile numero di aggressioni e stupri denunciati duranti le manifestazioni in piazza Tahrir in Egitto, nella violenza sessuale usata come arma da guerra, nel 90% di donne private dei più elementari diritti in Afganistan, nei circa 5 milioni di donne oggetto di tratta nei fiorenti mercati intra-regionali per il commercio di persone in America Latina e nei circa 600 mila stupri del 2012 in Sudafrica. Ma anche nei più conosciuti e “vicini” Stati Uniti d’America, dove viene denunciato uno stupro ogni 6 minuti, mentre in Europa una donna su 5 è vittima di violenza.

E anche limitandosi a parlare di Italia, i dati sono agghiaccianti. Nel corso del 2012 sono stati registrati ben 124 casi di femminicidio, come spiega il dossier della Casa delle Donne di Bologna pubblicato sulla piattaforma www.puntodonne.it, dove si spiega come questi episodi si verifichino “con dinamiche molto simili, anche se in contesti molto diversi, più di frequente nel Nord del Paese, in ambiti quindi in cui le donne lavorano di più e hanno un grado di autonomia ed emancipazione dal maschio maggiore”.

Un maschilismo subdolo e latente che attraversa tutti i cinque continenti, manifestandosi in varie forme e consuetudini che plasmano le culture fino a far parlare di omicidi passionali, delitti d’onore o giustificabili risposte alle provocazioni, come ha recentemente commentato il sito ultracattolico Pontifex.

Un problema di diritti umani e civili che può essere risolto solo mettendo in discussione il linguaggio, l’educazione, la rappresentazione mediatica e quindi noi stessi, la nostra mentalità e molti dei valori e dei parametri sociali che per lungo tempo abbiamo dato per scontati.

 

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