Un Governo debole a Roma e le tre principali Regioni del Nord in mano alla Lega potrebbero aprire nuovi scenari nell’assetto istituzionale italiano. Se la secessione tout court resta una prospettiva devastante, l’unica strada sembra essere quella del cosiddetto “regionalismo differenziato”.

di Matteo Barbero* (lavoce.info)

Due scenari per il Nord

L’impasse creatasi a livello centrale dopo le elezioni politiche congiunta alla vittoria di Roberto Maroni alle regionali in Lombardia potrebbe aprire scenari inediti nell’assetto istituzionale italiano.

La Lega, infatti, malgrado la debacle elettorale nazionale, si trova per la prima volta a governare le tre principali Regioni del Nord. Sull’altro versante, invece, si affaccia il rischio di avere a lungo un Governo debole e un Parlamento con maggioranze ad assetto variabile a seconda delle materie trattate.

In un simile contesto, l’idea leghista della macro-regione potrebbe diventare accattivante anche per una parte degli elettori che non hanno votato per il Carroccio, ma che si attendono risposte certe e immediate per fronteggiare la crisi economica. Basti pensare ai tanti imprenditori del Nord-Est che hanno scelto Beppe Grillo, il cui programma, in fatto di riforme economiche, è oggettivamente carente. In altri termini, dai territori potrebbe partire una richiesta pressante agli esecutivi regionali (tutti, almeno sulla carta, forti di una maggioranza certa nei rispettivi consigli) di supplire alle difficoltà di quello di Roma.
Se tutto ciò dovesse accadere, che sbocchi potremmo attenderci?

Si aprirebbero due scenari. Nel primo, le sempre più diffuse e accese tensioni sociali potrebbero sfociare in nuove richieste di secessione, come sta accadendo in Belgio. E non sembra un caso che il modello belga sia stato (anche se imprudentemente e spesso a sproposito) richiamato da diversi esponenti politici come possibile riferimento per il nostro paese. Ovviamente, si tratterebbe di una prospettiva devastante, che comporterebbe una rottura degli attuali equilibri, non solo socio-economici, ma anche costituzionali.
La sfida, cui sono chiamati tutti gli attori, ma in primis i governatori della Lega, è quella di trovare un’alternativa credibile e realizzabile. A Costituzione vigente, l’unica strada percorribile sembra essere quella del cosiddetto “regionalismo differenziato”. Si tratta di una possibilità introdotta dalla riforma del 2001 e prevista dall’art. 116, comma 3, della Costituzione. In pratica, ogni Regione può rivendicare maggiore autonomia (e maggiori risorse finanziarie) su una serie di materie (tutte quelle di competenza concorrente, oltre che alcune di competenza statale esclusiva). (1) A tal fine è necessaria una legge nazionale adottata su iniziativa della regione interessata e approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti. (2)

In passato, tutte e tre le Regioni oggi governate dal Carroccio hanno battuto questa strada, ma senza troppa convinzione e quindi con scarso successo. Nell’attuale situazione, invece, paiono esservi condizioni più favorevoli al buon esito di eventuali analoghe iniziative. Certo, le incognite sono numerose, a partire dalla difficoltà di raccogliere il necessario (e ampio) consenso parlamentare. Ma si tratta dell’unico modo per rendere credibile la promessa leghista di trattenere al Nord una quota maggiore del gettito fiscale. Come bene evidenziato da Gianfranco Cerea su lavoce.info, infatti, la proposta della macro-regione, per essere sostenibile, dovrebbe “associare maggiori risorse a più consistenti responsabilità di spesa, assorbendo competenze finora gestite e finanziate dallo Stato. Nel complesso, queste ultime valgono, solo considerando le tre regioni a guida leghista, valgono oltre 56 milioni di euro all’anno (al netto degli interessi sul debito pubblico): una cifra ragguardevole, anche se certamente non sufficiente a giustificare la rivendicazione del 75 per cento del gettito fiscale. (3)

In conclusione, se (come auspicabile), la congiuntura politica offre l’occasione per un profondo cambiamento degli assetti istituzionali consolidati, pare opportuno sfruttare l’occasione anche per ripensare alle modalità di attuazione di quel federalismo per anni sbandierato ma finora mai compitamente realizzato. Da questo punto di vista, l’idea della macro-regione (depurata dei suoi aspetti più marcatamente propagandistici) potrebbe consentire una più equilibrata distribuzione delle funzioni fra i vari livelli di governo.

 

(1) Le materie di competenza concorrente sono quelle relative a rapporti internazionali e con l’Unione Europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Mentre quelle di competenza esclusiva sono: organizzazione della giustizia di pace,  istruzione, ambiente e cultura.
(2) Correndo con l’immaginazione, si potrebbe anche ipotizzare l’avvio di un percorso parallelo di progressiva fusione delle diverse regioni in una nuova macro-regione, che però richiederebbe una legge costituzionale (art. 132 Cost.), nonché la revisione degli Statuti speciali  laddove esso coinvolgesse anche le autonomie differenziate.
(3) Ragioneria generale dello Stato, La spesa statale regionalizzata, 2011.

* Avvocato e dottore di ricerca in diritto pubblico. Lavora per la Regione Piemonte e collabora con diversi Atenei italiani. E’ professore a contratto di diritto pubblico presso il Politecnico di Torino.

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