E’ un gruppo attivo in un settore “maturo”, per niente tecnologico, e produce relativamente poco in Cina. Ha sede in uno dei Paesi europei alle prese con una delle peggiori crisi economiche. I suoi manager si sono fatti le ossa all’interno, partendo dal basso. Il nome di questo gruppo, che fa tutto il contrario di quello che fior di economisti asseriscono si debba fare, è Inditex. Di per sé non dice molto. Ma il suo marchio più importante, Zara, è conosciuto in tutto il mondo. Inditex, ormai numero uno nel globo per il tessile-abbigliamento, colosso spagnolo, continua a correre e a creare posti di lavoro alla faccia della crisi, in Spagna e altrove.

Da poco il fondatore (e ne controlla oggi più del 59% del capitale), il riservato Amancio Ortega, che ancora lavora nel quartier generale (dagli inizi) del gruppo, ad Arteixo, Galizia profonda, è balzato al terzo posto degli uomini più ricchi del mondo, superando il finanziere e filantropo Warren Buffett. Resta dietro solo a Carlos Slim e a Bill Gates. Il suo patrimonio l’anno scorso ha lievitato grazie anche all’apprezzamento del 60% dell’azione Inditex alla Borsa di Madrid. Ma da poco sono arrivati, più significativi, i dati del gruppo del 2012. Grazie a una distribuzione planetaria e, quindi, al volano rappresentato dai Paesi emergenti, i ricavi sono cresciuti del 16% (a quota 15,95 miliardi di euro) e l’utile netto del 22% (2,36 miliardi), in un settore, quello dell’abbigliamento, toccato fortemente dalla crisi, in Europa e non solo.

Nel 2012 Inditex è anche riuscita a creare 10.802 nuovi posti di lavoro, dei quali 500 addrittura in Spagna, dove il gruppo impiega quasi 40mila dei suoi 120mila dipendenti globali. Le ragioni del successo sono il buon rapporto qualità-prezzo (ma su questo la concorrenza non manca e mentre gli altri, tipo Gap e H&M, hanno avuto il loro momento di gloria e poi si sono stabilizzati, se non peggio, Zara e compagnia continuano a correre). A vantaggio del marchio spagnolo vi è anche l’invenzione di Ortega, il “fast fashion“, metodo poi copiato dagli altri, ma che solo Inditex riesce a far fruttare al 100%: in sostanza dall’idea di un capo (spesso copiata agli altri, anche direttamente dalle passerelle…) al suo arrivo nel negozio passano appena due settimane. Si comincia con piccoli quantitativi e poi, grazie a un controllo sistematico e quotidiano, si capisce se il prodotto va oppure no (in questo caso la produzione viene immediatamente interrotta).

Ora, poiché le favole non esistono mai, le polemiche su Zara abbondano. Il fatto che riducano all’osso i margini riservati ai subfornitori. Che in certi Paesi in via di sviluppo siano troppo “flessibili” nel controllo delle condizioni di lavoro. Senza contare le accuse (Greenpeace ha organizzato blitz contro i negozi) riguardo all’utilizzo di sostanze chimiche pericolose nella fabbricazione, cui molti degli altri big del tessile hanno rinunciato. Detto questo, è interessante come la salute del colosso sia il risultato di scelte in controtendenza rispetto ai presunti assiomi del business contemporaneo. In un Paese dove si è progressivamente abbandonata l’industria manifatturiera, il señor Ortega ha continuato imperterrito con l’abbigliamento, senza diversificare. E delocalizzando il meno possibile: fabbricando, ancora oggi, molto in Spagna e nella sua regione natale. Comunque, sempre vicino ai mercati, per realizzare il principio del fast fashion. Non solo, ora che si privilegiano i manager superlaureati, lui, che non ha neppure il diploma, quarto figlio di un modesto ferroviere, che inizio’ dal nulla (oggi ha 76 anni ma è sempre attivo nella gestione), privilegia dirigenti formati sul terreno, all’interno di Inditex, che come lui abbiano fatto esperienza dal basso. Come dire, il buon senso al potere. 

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