“Ora c’è da fare il governo: e l’intesa tra Pd, montiani e Lega è possibile”, dice un eletto di Scelta Civica. L’elezione di Pietro Grasso alla presidenza del Senato sblocca lo stallo istituzionale, e in molti, tra i tre soggetti interessati, vedono ora un po’ più possibile arrivare alla formazione del governo. E con una maggioranza piena anche senza il Pdl: 161 senatori, contando i 122 di Pd-Sel, i 22 di Monti per l’Italia, e i 17 della Lega. Senza contare i segnali di cedimento nel monolite a Cinque Stelle. Peraltro, con i grillini magari fuori dall’Aula al momento della fiducia, basterebbe anche un voto d’astensione dei leghisti per garantire il numero legale e dunque il via libera al governo. Si ragiona così, a tarda sera, dopo una delle giornate politiche più difficili da dopo le elezioni. L’elezione di Grasso passata per un filo, i grillini che si spaccano, il Pd che naviga a vista con Bersani, ormai, in grande difficoltà e Berlusconi che come un falco attende il momento giusto per attaccare. E, casomai, spingere verso un ritorno alle urne.

Giornata campale. Ma la democrazia partecipata è una fatica. “Certo, è stato stressante, ma è la democrazia…”. E’ forse tutta in queste parole di Bartolomeo Pepe, senatore campano del Movimento 5 stelle, la sintesi della giornata più difficile soprattutto per i neo eletti di Beppe Grillo, divisi e nervosi alla prima scadenza parlamentare seria e alla prima mossa politica del Pd pensata probabilmente anche per metterli in difficoltà: la candidatura di Piero Grasso, ex procuratore nazionale antimafia, alla presidenza del Senato. E la cosa, puntualmente, è accaduta.

Lo stesso Pepe ha poi pubblicato su Facebook un post inequivocabile. “Amici: Libertà di voto. Senza contrattazioni e senza trucchi. Borsellino ci chiede un gesto di responsabillità e noi non siamo irresponsabili”. Qualcuno gli ha dato retta, in coscienza. E il risultato ha pagato.

La riunione dei ‘grillini’, quella determinante prima del voto, è stata dura. E nonostante il lavoro severo dei commessi di palazzo Madama per tenerli a distanza, i cronisti hanno potuto distintamente sentire qualche urlo che ha trapassato le porte, compreso questo: “Io un mafioso al Senato non lo voto”, segno che la sfida tra Grasso e il presidente uscente Renato Schifani, siciliano anche lui, non ha lasciato affatto indifferenti tutti i ‘cittadini’ a 5 stelle.  Alla fine divisi nel voto per alzata di mano: “Si è deciso a maggioranza”, ha ammesso uno di loro. Anche in aula, dopo, si sono mostrati piuttosto sfilacciati, e impegnati in capannelli di discussione separati, segno di una divisione che ha lasciato qualche strascico anche umano.

A dire il vero, però, la spaccatura grillina è stato solo un aspetto di una giornata cominciata, in realtà, la notte prima, con il profondo disappunto di Napolitano davanti alla richiesta di Monti di fare lui il presidente del Senato. Dicono che il Capo dello Stato non credesse alle sue orecchie e che abbia risposto risolutamente che non se ne parlava neppure, che lui avrebbe dovuto restare a fare il premier fino all’ultimo minuto. In contemporanea, nel quartier generale democratico, maturavano le candidature di Grasso e di Laura Boldrini, due nomi “fuori dagli schemi”, lontani dalla vecchia politica e, soprattutto, persone per bene. Una mossa che ha la sua genialità, quella di Bersani (“Quando si vuole, si può”, ha gioito il segretario Pd), anche se il messaggio che è arrivato poi dal voto sulla Boldrini (le sono mancati in totale una ventina di voti) ha fatto capire che la resa dei conti dentro il Nazareno è solo rimandata di qualche giorno, non di più. Il segretario del Pd, con questa scelta, voleva anche “stanare i grillini” e quanto è accaduto nel pomeriggio al Senato ha fatto chiaramente capire che è stata la mossa giusta.

Ora, però, si apre una partita davvero complicata. Nella mente di Napolitano, dopo che la Camera e il Senato avranno chiuso tutti gli adempimenti rituali (l’insediamento delle commissioni, le nomine dei relativi presidenti, ma anche l’elezione dei vicepresidenti delle Aule e quello delle cariche “amministrative”, come segretari d’aula e i questori) si dovrà fare il più presto possibile per aprire le consultazioni. Si parla del 20 marzo (mercoledì) come data di inizio. E la confusione regna ancora sovrana. La “vittoria” di Bersani portata a casa con le nomine di Boldrini e Grasso, certamente farà sì che il primo incarico per tentare di formare il governo sia dato proprio al segretario Pd. Poi, però Napolitano potrebbe scegliere di dimettersi. E c’è già una data che circola, quella del 6 aprile, ossia qualche settimana prima della scadenza naturale del 15 maggio. Il ragionamento del Capo dello Stato è semplice; non potendo sciogliere le Camere in caso di fallimento di Bersani (ma anche di un possibile fallimento di un successivo governo istituzionale, presieduto proprio da Piero Grasso) è preferibile lasciare al successore l’onere del portare di nuovo ad elezioni il Paese in tempi rapidi. Per non lasciare troppo tempo all’incertezza.

L’elezione del nuovo capo dello Stato, dunque. E’ questo il nodo, la partita vera e determinante che le forze politiche stanno già giocando da giorni. Con la nomina di Grasso e Boldrini, Bersani si sarebbe preclusa la possibilità di indicare una personalità di area per il Colle – almeno secondo la prassi – lasciando di fatto campo libero al centrodestra per un loro candidato. Forse Gianni Letta, forse anche Massimo D’Alema, ora impegnato in una partita tutta personale, forse un outsider. Berlusconi (lo ha detto chiaramente in più occasioni) punta ad avere al Colle una personalità che lo tuteli dal punto di vista giudiziario. Con un salvacondotto sembra improbabile, ma si sa che il Cavaliere punterebbe alla nomina a senatore a vita, questione al momento fuori discussione, ma lui ci crede. I suoi più fedeli scudieri ragionano sul fatto che “non si può pensare di avere tutte le principali cariche istituzionali alla fine vadano a sinistra e a noi non resti che tremare per Berlusconi che può finire fuori dai giochi per una condanna definitiva (processo Mediaset,ndr) vogliamo essere determinanti per la nomina del prossimo Capo dello Stato”. Qualcuno sussurra che il nome di Piero Grasso per il Colle piacerebbe anche a Berlusconi che si è sentito riconoscere proprio dal procuratore antimafia, in tempi non sospetti, l’alloro di “governo che ha fatto di più contro la lotta alla mafia”. Una frase che suscitò polemiche, ma che ora potrebbe fare la differenza nella scelta del centrodestra. Anche se il cavaliere ha sempre il solito nome nel cassetto: Gianni Letta. Comnque, la partita del Quirinale è aperta: “Da lì passa tutto”, spiega un altro montiano. “Se riusciamo a ‘imporre’ al Pd un presidente che ha a cuore la durata della legislatura e non uno che abbia il ‘mandato a sciogliere’, allora vorrebbe dire che è possibile un’intesa”. Tradotto, “Prodi significa voto, D’Alema magari no…”.

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