Una volta si chiamavano assistenti, infermieri. Oggi, nell’era della consapevolezza aumentata, si sono evoluti. Si chiamano “giver”. Per esempio, c’è la figura del “care-giver”, ovvero colui che dà attenzioni e cure particolari a chi ne ha bisogno. Penso a coloro che si occupano di accudire i malati di Alzheimer e non solo. Il “care-giver” non ha infatti la funzione di mera assistenza fisiologica, ma si prende cura di tutta la sfera affettiva ed emozionale sia del malato che della sua famiglia, spesso sopraffatta da un carico di pesanti incombenze sociali, materiali, economiche ed emotive non indifferente, che non è preparata ad affrontare. Angeli di cui si percepisce il reale valore solo quando se ne ha bisogno.

C’è tuttavia un aspetto della malattia che forse il “care-giver” non è preparato ad affrontare. La disabilità, spesso, non elimina gli istinti scatenati dalla normale routine fisiologico-ormonale del corpo. E sappiamo tutti molto bene, al di là delle ipocrisie, quanto queste esigenze sappiano farsi pressanti fino quasi a divorare i pensieri di chi non riesce a soddisfarle. La sessualità è una componente fondamentale della nostra biologia, che si può esprimere nella dimensione dell’amore ma che non necessariamente si esaurisce in essa. Una componente volutamente sottovalutata, mortificata e anzi, nel tempo, oggetto di una demonizzazione che non rende giustizia della nobile funzione che esplica. Una forza che si sprigiona, volenti o nolenti, incanalandosi dentro un alveo elettivo o, se imbrigliata, seguendo pertugi e valichi che portano ad esiti spesso disastrosi, siano essi degradanti e pericolosi dal punto di vista sociale, o devastanti e patologici dal punto di vista psicologico.

Ma c’è chi si batte perché, almeno nell’ambito della disabilità, la sessualità venga riconosciuta come un diritto, al pari di quelli garantiti e tutelati dai trattati fondanti del vivere civile e dalle Costituzioni. Del resto, la stessa storia dei diritti è una evoluzione costante di riconoscimenti sempre più estesi alle esigenze individuali, che sono cresciuti di pari passo con l’evoluzione della consapevolezza e della civiltà. Parliamo dei “love-giver”, i quali ritengono che, al pari di altri paesi, anche in Italia siano maturi i tempi per pensare al riconoscimento del diritto del disabile ad avere una vita sessuale, se non proprio normale, almeno sufficiente a permettergli di affrontare la quotidianità con più serenità.

Certo, un disabile in Italia ha molti problemi, a cominciare dalle barriere architettoniche, dall’adeguamento delle strutture socio-sanitarie, passando per l’insufficienza dei sussidi economici e così via, ma questo non significa che, a maggior ragione, non possa trovare in un “love-giver” (il quale ha un’etica rigorosa, come si conviene a chi deve rapportarsi con la parte più profonda, intima e sensibile degli altri) quel momento di pace che può permettergli di superare ostacoli diversamente insormontabili, che rendono ancora più difficile la sua condizione.

Debora De Angelis, una ragazza che non si può certo definire piena di tabù, da tempo ha deciso di condurre una battaglia per creare consapevolezza intorno a questo problema. Una sfida che in Italia, per ragioni diciamo così storiche e geo-politiche, non si presenta affatto facile…

Per approfondire questa tematica è utile leggere questo post di Max Ulvieri, blogger e promotore della figura del love-giver

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