A dispetto della visione teneramente romantica di molti fra coloro che seguono la musica con passione, la performance di un cantante sul palco va saputa comprendere anche immaginando cosa è un tour e cosa vuol dire suonare centinaia di volte nella propria vita certi pezzi che sono entrati nell’immaginario collettivo.

La particolare intensità dei migliori di essi sa accendere nell’animo della gente una propensione al coinvolgimento emotivo del tutto impressionante e fantastica, che da un gradiente di apprezzamento di natura estetica (la sensazione, al primo ascolto su disco, che qualcosa di artisticamente valido sia stato creato) si trasforma in una specie di empatia collettiva grazie al rito del concerto, dove la fisicità del gruppo che si ha di fronte amplifica esponenzialmente il fascino che ne risulta.

In tale visione teneramente romantica si inserisce, per legittimarla, l’idea che questa fisicità provenga anche dalla qualità dell’interpretazione. Come è ovvio. Non però una interpretazione di intensità qualsiasi, bensì una in cui testo e musica siano vissuti fino in fondo. Come se ogni volta i musicisti e il cantante si reimmergessero nel clima del processo creativo, quello che, tramite un equilibrio magico di ragione e istinto, portò all’ispirazione speciale che partorì il pezzo. Per fare un esempio: se una canzone è uno struggente resoconto delle pene d’amore, in base a quanto detto ci si aspetterebbe ogni volta un richiamo interiore – coerentemente doloroso – ai momenti della sofferenza vissuta tempo addietro. Ma, ahimè: nonostante la performance con la sua potenza sembri far tornare il cantante alle turbe passate, egli molto difficilmente le sta rivivendo in concerto. (Voglio immaginare che per qualcuno questo sia scontato. Ma questo qualcuno mi creda: non per tutti lo è)

Un tour è stancante (a volta massacrante), e la replica di centinaia di versioni della stessa canzone non può prescindere dalla consuetudine. Quindi è impensabile che una band si possa ricollocare ogni volta nel mood di partenza.

E se questo ha senso (garantisco che lo ha) allora ha senso pensare che spesso dietro la qualità professionale della performance (pur nella sua sensualità e nella sua animalità, autentiche e trasfiguranti), il cantante o il musicista possano avere il cervello altrove, sovente o in qualche frangente, per quanto super concentrato.

Dico tutto ciò perché al mio penultimo concerto (sabato scorso a Bellaria, al Bradipop, in provincia di Rimini) mi è capitato di pensare una certa cosa mentre si stava eseguendo “Gioia (che mi dò)”, una nostra canzone vecchissima (dovrei mettere tale parola fra virgolette in verità… Mi impressiona pensare che un nostro pezzo sia “vecchissimo”, ma tant’è). Il testo a un certo punto dice infatti: “Donna, come ti vorrei vicino: due in uno, in cielo, accanto a Dio!”. Mentre cantavo queste parole mi è balzato alla mente, per una riflessione subitanea e surreale, una cosa del tipo: “Figo: già tanto tempo fa avevo dunque questa idea dell’unicità dell’amore!” (cosa che, peraltro, smentisco a me stesso nella realtà, poiché sento che è una visione eccessivamente poetica, letteraria e “scenografica”, per quanto fascinosa e irresistibilmente romantica).

Perché ho scritto “… già tanto tempo fa…”? Perché quel “già”? Perché nel nostro disco Uno, uscito molto tempo dopo, la canzone eponima cita Nabokov traendo da un suo libro (La vera vita di Sebastian Knight) una frase: ‘Esiste un solo numero vero: uno. E l’amore è l’esponente migliore di questa unicità’. A questa mia citazione, e alla canzone che gli ho costruito sopra, conferisco un sentimentalismo del tutto assente al contesto da cui essa è estrapolata (in una lettera ritrovata dopo un disastro aereo, l’autore – della lettera – scrive alla sua ex-amata coi toni, tipici nabokoviani, di chi si colloca anni luce dal sentimentalismo, quasi parodiandolo), e dunque non avrei di certo goduto dei Suoi complimenti, se mai avesse letto il mio testo…
Ma è pur vero che, in verità, se uno si leggesse Vera, la biografia della di Lui moglie, scoprirebbe che i due, da giovani, si scambiavano tenerezze decisamente sentimentali (era la loro vita reale, non il territorio della creazione artistica), e scoprirebbe altresì che Vladimir da qualche parte (un bigliettino amoroso?) le scrisse che erano così innamorati l’uno dell’altra che camminando insieme l’ombra riprodotta dietro di loro era, guarda caso, una sola…

In questo affollamento dell’uno trovo, per bizzarro contrasto, un parallelo con la storia degli uno di cui si parla molto in questo periodo, quella relativa all’invito ad appropriarsi della propria unicità di rappresentanza nel contesto sociale, dove ciascuno vale, per l’appunto, uno. E mi stupisco, anche ora che ne scrivo, nel constatare che si ritenga possibile o auspicabile by-passare la democrazia rappresentativa: a mio modo di vedere è piuttosto assurdo credere che qualsiasi decisione si dovesse prendere la si dovrebbe ottenere dopo aver passato al setaccio le opinioni scrupolosamente raccolte della gente, tutta la gente, anche quella priva di competenze su argomenti specifici… (si fa ovviamente per dire, ma intanto, nel momento che non fossero, come credo normale che sia, realmente tutti, ci si allontanerebbe per ciò stesso dall’ideale auspicato e si tornerebbe a convergere verso il concetto di rappresentanza…).

E dunque mi sembra un abbaglio sognarlo.

Amo, letteralmente, la sola eventualità remota e ardua che il popolo del Movimento Cinque Stelle possa riuscire nel miracoloso intento di dare inizio (un lentissimo inizio) a un nuovo corso della mentalità del nostro popolo (questo credo sia il nostro problema, la scaturigine dei nostri mali), ma suppongo che mi basterebbe e avanzerebbe.

 

 

Uno

La nostra vita insieme un’armoniosa unicità

 

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