L’aumento della produzione interna di petrolio negli Stati Uniti porta al declino dell’Opec, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio. In particolare la crescita dell’estrazione di shale oil, il petrolio estratto nelle profondità rocciose dei giacimenti americani, contribuirà a una riduzione della domanda estera pari a 100 mila barili al giorno. Il taglio, secondo i dati elaborati dal Wall Street Journal, finirà così per alimentare un fenomeno già in atto che vedrà la richiesta di petrolio Opec ridursi di 350 mila barili quotidiani rispetto alla media dell’anno precedente. Tradotto: nel corso del 2013 la richiesta complessiva di oro nero proveniente dalla storica organizzazione dei Paesi esportatori scenderà a 29,7 milioni di barili quotidiani pari al 33,1 per cento della domanda globale. Ovvero il livello più basso degli ultimi 11 anni.

La previsione rappresenta un nuovo segnale di crisi per i dodici Paesi dell’organizzazione (tra cui Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iraq, Nigeria e Venezuela) che scontano una crescente pressione di nuovi concorrenti con ovvie conseguenze geopolitiche. Secondo il Wall Street Journal, le forniture petrolifere delle nazioni non Opec dovrebbero crescere quest’anno di 1 milione di barili al giorno sfruttando il traino della produzione statunitense, pronta a toccare i livelli più alti dal 1985. Tra il 2011 e il 2012, ha riferito la U.S. Energy Information Administration citata ancora dal quotidiano finanziario americano, le esportazioni della Nigeria negli Stati Uniti si sono quasi dimezzate. Lo scorso mese di novembre, l’Agenzia Internazionale dell’Energia ha avanzato l’ipotesi che gli Stati Uniti possano superare nello spazio di un decennio l’Arabia Saudita diventando così il primo produttore mondiale di petrolio.

Le speranze dell’Opec restano legate alla possibile crescita della domanda globale, un fenomeno che comporterebbe benefici per tutti gli esportatori e che, secondo le valutazioni dell’analista del comparto commodities di Commerzbank Carsten Fritsch, sarebbe oggi decisamente probabile. Ma la riduzione del peso geopolitico dell’Organizzazione appare in realtà un fenomeno più complesso con radici decisamente più profonde. Per decenni, le scelte dei grandi esportatori, a cominciare dall’Arabia Saudita, hanno avuto un’influenza massiccia sulla determinazione del prezzo del petrolio attribuendo a Riyad il ruolo di “banca centrale” de facto nel mercato dell’oro nero. Nel corso dell’ultimo decennio, tuttavia, la capacità di questi Paesi di influenzare il prezzo del greggio si è ridotta drasticamente. E i fattori decisivi, in questo senso, sono stati almeno un paio.

Il primo è rappresentato dalla crescita abnorme del mercato finanziario legato al petrolio, ovvero il comparto dei derivati futures, i contratti di acquisto differito che hanno alimentato enormi speculazioni sui margini di prezzo attribuendo così un nuovo potere ai grandi operatori finanziari. Quando il 12 luglio 2008 il petrolio quotato al Nymex ha raggiunto il picco massimo di 147,25 dollari al barile, l’insieme dei contratti futures, secondo le stime del Peterson Institute for International Economics, valeva ormai 15 volte il mercato fisico del greggio. Come a dire che a una produzione giornaliera mondiale di 85 milioni di barili reali corrispondevano scambi finanziari pari a 1,3 miliardi di barili di carta. In termini di influenza sul prezzo, in altre parole, i grandi trader finanziari avevano ormai scalzato gli sceicchi.

Ma a fare concorrenza sul prezzo, e qui veniamo al secondo fattore decisivo, ci sono da qualche anno anche i mega trader “materiali”, ovvero le compagnie private del trasporto e della distribuzione. Grandi corporation come Vitol, Trafigura, Glencore e Gunvor che, dai loro uffici direttivi domiciliati sulle rive del lago di Ginevra, decidono come, dove e quando spostare le loro flotte di petroliere impattando così in modo decisivo sul prezzo del greggio. Un ruolo fondamentale rafforzato dai rapporti consolidati con altri soggetti chiave del mercato come governi, authorities, e grandi imprese dell’estrazione. Nel 2010 si stimava che i loro ordini spostassero quotidianamente il 15 per cento della produzione mondiale di oro nero. In pratica la somma dei barili prodotti all’epoca da Iran, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti e Venezuela.

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