Il Fiscal Compact è un trattato internazionale firmato il 2 marzo 2012 da tutti gli stati membri dell’UE tranne Repubblica Ceca e Regno Unito. Il Trattato impone di avere un deficit pubblico “strutturale” (cioè “corretto” tenendo conto del ciclo economico) non superiore allo 0,5% del Pil. Per i paesi il cui debito pubblico è inferiore al 60% del Pil, la soglia di ammissibilità del rapporto deficit/Pil è pari all’1%. Questo significa che le uscite dello Stato possono essere ogni anno superiori alle entrate al massimo dello 0,5 per cento del Pil, comprese le spese per gli interessi sul debito pubblico.

La parola “strutturale”, però, implica complicati meccanismi statistici che aggiustano il calcolo a seconda del ciclo economico. Se ci si trova in recessione, e le entrate dovute alla tassazione si abbassano e le uscite si alzano (per esempio per un aumento della spesa in ammortizzatori sociali), la “correzione” dovrebbe riuscire a tenerne conto. È quindi possibile che un paese che in termini assoluti ha un deficit del 2% del Pil abbia un deficit “strutturale” compatibile con lo 0,5% stabilito dal Trattato.

I paesi che abbiano un debito pubblico superiore al 60% del Pil sono obbligati a rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni, a un ritmo pari a un ventesimo dell’eccedenza in ciascuna annualità.

L’Italia deve quindi portare il suo debito pubblico dal 126% circa al 60% del Pil nei prossimi venti anni. In altri termini, il bilancio dello Stato dovrà registrare dei robusti avanzi primari fino al 2033. Secondo gli economisti che criticano il Fiscal Compact, ciò si tradurrà in venti anni di austerità, che renderanno permanente la nostra crisi economica. Secondo i sostenitori del Trattato, rispettarne le condizioni ci farà riconquistare la fiducia dei mercati, rendendo più facile il collocamento dei titoli del debito e garantendo il contenimento dei tassi di interesse.

L’orientamento del Pd nei confronti del Fiscal Compact ha subito una brusca sterzata dopo le elezioni. Nella Carta d’intenti di Italia Bene Comune, manca ogni riferimento al Trattato, e si trovano solo generici cenni all’opportunità di un coordinamento fiscale europeo e di una maggiore attenzione alle conseguenze dell’austerità.

Il primo degli otto punti presentati da Bersani alla Direzione del Pd pone invece chiaramente il problema: “Il Governo italiano si fa protagonista attivo di una correzione delle politiche europee di stabilità…Si tratta di conciliare la disciplina di bilancio con investimenti pubblici produttivi e di ottenere maggiore elasticità negli obiettivi di medio termine della finanza pubblica…L’aggiustamento di debito e deficit sono obiettivi di medio termine. L’immediata emergenza sta nell’economia reale e nell’occupazione.” 

Per “correzione delle politiche europee di stabilità”, si intende probabilmente la promozione a livello europeo di politiche fiscali anticicliche, che potrebbero comportare spesa pubblica in deficit (cioè non “coperta” dalla tassazione e quindi finanziata con emissione di titoli) e un temporaneo aumento del debito pubblico, che allo stato attuale implicano la necessità di modificare il Fiscal Compact. Tale interpretazione è rafforzata dalla frase successiva, che auspica “maggiore elasticità negli obiettivi di medio termine della finanza pubblica”. Significa l’introduzione di deroghe al tetto dello 0,5% riguardante il rapporto “strutturale” tra deficit e Pil, e probabilmente anche l’ampliamento dell’arco temporale (oggi venti anni) entro cui eventualmente realizzare il dimezzamento del nostro debito. Una interpretazione meno restrittiva potrebbe identificare la maggiore elasticità con l’introduzione dell’obiettivo della stabilizzazione del debito pubblico in luogo di quello che ne prevede una tanto drastica (per l’Italia) riduzione.

Nel programma del M5S e nei “venti punti” enunciati da Grillo poco prima delle elezioni non c’è alcun riferimento al Fiscal Compact né, più in generale, alle politiche fiscali europee. Nel programma, l’unico cenno alla finanza pubblica è la generica proposta di ridurre il debito con interventi “Sui costi dello Stato con il taglio degli sprechi e con l’introduzione di nuove tecnologie per consentire al cittadino l’accesso alle informazioni e ai servizi senza bisogno di intermediari”.

Tuttavia, diversi altri punti implicano aggravi di spesa pubblica tali da rendere probabilmente necessaria una ridefinizione dei vincoli di bilancio europei. In mancanza di indicazioni su come reperire le risorse necessarie al finanziamento, misure come il reddito di cittadinanza, il ripristino di fondi tagliati a sanità e scuola pubblica, l’abolizione dell’Imu sembrano implicare un aumento della spesa in deficit. Inoltre, nel suo blog, Grillo ha più volte accusato il Pd di essere favorevole al Fiscal Compact e al pareggio di bilancio. Ciò fa ipotizzare che il M5S sia invece sfavorevole, e auspichi una rinegoziazione dei vincoli fiscali europei.

Sembra quindi lecito supporre che, se le posizioni dei due partiti rimarranno quelle messe per iscritto dai loro leader, sul Fiscal Compact (e più in generale sulla politica fiscale), il semaforo sia verde.

di Fabio Sabatini 

Prossime uscite su questo blog: Politiche per la concorrenza; La riforma Fornero; Europa: Unione monetaria; Banda larga e connettività; Conflitti di interesse e altre incompatibilità; Legge elettorale.

Articolo Precedente

Elezioni 2013 – E se gli italiani avessero ragione?

next
Articolo Successivo

Camere, niente intesa con i 5 Stelle: la Lega tenta il Pd. Anche per il governo

next