L’Ilva inquina ancora e, soprattutto, non sta rispettando le prescrizioni imposte dall’Autorizzazione integrata ambientale rilasciata dal ministro dell’Ambiente Corrado Clini lo scorso 27 ottobre. È l’accusa certificata dai vertici dell’Agenzia regionale di protezione ambientale pugliese e contenuta in una relazione inviata alla procura di Taranto lo scorso 13 febbraio. Un documento firmato dal direttore generale di Arpa Puglia Giorgio Assennato, dal direttore scientifico Massimo Blonda e dal funzionario Simona Sasso. Un documento che i pubblici ministeri di Taranto, Giovanna Cannarile e Remo Epifani, hanno depositato, con numerosi omissis, dinanzi al tribunale dell’appello che dovrà decidere sul ricorso proposto dai legali di Nicola Riva, ex presidente del cda dell’Ilva agli arresti domiciliari dal 26 luglio scorso, dopo l’ennesimo no del gip Patrizia Todisco alla revoca della misura cautelare. La conseguenza è che il tribunale ha respinto il ricorso degli avvocati di Riva.

Per il pool di inquirenti che ha indagato i vertici aziendali e la famiglia proprietaria dello stabilimento per disastro ambientale e avvelenamento di sostanze alimentari, questo documento è la prova del rischio di reiterazione dei reati qualora Nicola Riva dovesse tornare in libertà. Un punto duramente contrastato dal collegio difensivo che ha ribadito le dimissioni dell’indagato da tutte le cariche societarie. Dimissioni, tuttavia, che lo stesso gip Todisco aveva già definito “una gattopardesca strategia funzionale” finalizzata “alla messa a riparo, da paventati provvedimenti cautelari”.

Nella sua relazione Arpa Puglia spiega che, nonostante i proclami dell’azienda, “risultano non ancora ottemperate dall’Ilva diverse prescrizioni. A titolo esemplificativo, si citano quelle relative a nastri e cadute il cui completamento è stato posticipato al 27 ottobre 2015, ovvero si è passati dai tre mesi prescritti ai 3 anni comunicati dall’azienda, alla chiusura completa degli edifici con captazione e convogliamento dell’aria degli ambienti confinati il cui completamento è stato posticipato dal 27 aprile 2013 al 30 giugno 2014”. In sostanza tre anni di proroga a danno ella salute di operai e cittadini. Un nuovo lasciapassare alle richieste dell’azienda. Non solo. Secondo l’Arpa, “i differimenti temporali non fanno altro che incrementare il fenomeno di danno ambientale già in atto. Durante, infatti, le attività di carico-scarico delle materie prime dai parchi minerari agli impianti produttivi vengono disperse in atmosfera ingenti quantità di materiale polverulento. Un fenomeno inquinante non meno invasivo degli sversamenti accidentali a mare registratisi nell’ultimo periodo durante le operazioni di scarico agli sporgenti dell’area portuale in uso ad Ilva”. Una sorta di concessione ulteriore all’inquinamento, quindi, che non farà altro che peggiorare la già drammatica situazione del quartiere Tamburi e dell’intera città di Taranto. Interventi che, invece, potrebbero essere fatti immediatamente secondo Assennato e i suoi collaboratori dato che “non si comprendono i tempi di realizzazione prospettati dall’Ilva in quanto non ascrivibili ad una difficoltà tecnica”.

Tuttavia il ministero dell’Ambiente smentisce: “Al momento non risultano inadempienze” si legge in una nota. Il ministero spiega tra l’altro di aver “preso atto del rapporto trimestrale predisposto da Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale)” sull’attuazione dell’Aia ed è “finalizzato ad assicurare che l’impresa realizzi nei tempi prestabiliti gli interventi prescritti”. In una nota, il ministero spiega che “nel merito del rispetto della tempistica, si ricorda che la normativa in materia di Autorizzazione Integrata Ambientale, richiamata dalla legge 231 del 2012 ‘Salva Taranto’, prevede che l’impresa possa richiedere modifiche ‘non sostanziali’ alla tempistica degli interventi prescritti sulla base di motivazioni tecniche ed economiche. Ilva ha presentato al Ministero dell’Ambiente il 17 febbraio scorso una richiesta di variazione della tempistica della copertura dei nastri, chiarendo le motivazioni tecniche ed economiche anche in relazione alle circostanze che si sono determinate dopo il rilascio dell’AIA il 26 ottobre 2012”.

Nel merito, prosegue la nota, “va rilevato che la lunghezza dei nastri (circa 90 km per limitarci ai principali) richiede tempo per completare la copertura, che peraltro è iniziata ed in linea con la tempistica prevista per il primo trimestre. La richiesta di Ilva non modifica i tempi per la conclusione degli interventi (36 mesi) ma ne prevede la rimodulazione. Pertanto sulla base di quanto previsto dall’Autorizzazione Integrata Ambientale rilasciata il 26 ottobre 2012 e delle successive integrazioni in applicazione delle norme in vigore, non risultano inadempienze da parte dell’azienda”.

Tutto questo però non ha avuto effetti sulla decisione del tribunale. Ma la relazione dell’Arpa e soprattutto le parti coperte ancora dal segreto istruttorio, appaiono come l’inizio di una nuova serie di contestazioni penali in capo alla fabbrica. Un nuovo capitolo di indagini che potrebbe aggiungersi al già voluminoso fascicolo sui reati ambientali ipotizzati dalla procura di Taranto. E intanto resta in città l’attesa per il pronunciamento della Corte costituzionale che il 9 aprile dovrà valutare la legittimità della legge “salva Ilva” per mettere, sperano a Taranto, la parola fine all’eterno sacrifico della salute dei tarantini a vantaggio del profitto. Gli ambientalisti sono al lavoro per tornare in piazza il prossimo 5 aprile a sostegno dei magistrati e di una città libera dai veleni.

Aggiornato da Redazione web alle 16.22 del 14 marzo 2013

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