Immagine trovata in rete

C’è una tanto simpatica quanto amara vignetta che circola per la rete e che sembra fatta apposta per descrivere le politiche italiane dei trasporti: le risorse naturali vengono trasformate in denaro attraverso un processo di depredazione in cui chi si arricchisce è un singolo soggetto (fisico o giuridico) mentre a pagare è la comunità nel suo insieme, il tutto con la benedizione di grandi economisti intenti a misurare solamente il flusso di cassa generato.

Passando dalle vignette satiriche alla realtà, è per il tentativo bislacco di creare soldi con cui nutrire la macchina del Pil e delle infiltrazioni mafiose che periodicamente vengono approvate opere che perforando le montagne, cementando le foreste e asfaltando i fiumi creano ricchezza per alcuni soggetti privilegiati e lasciano inquinamento, dissesto idrogeologico e bruttezza a tutti gli altri.

Tra queste possono essere annoverate gran parte di quelle 192 opere ritenute strategiche, pianificate dal 2001 ad oggi per un valore di ben 304 miliardi di euro di soldi pubblici o in project financing (l’equivalente di circa dieci volte la manovra lacrime e sangue di Monti). Ma per fortuna siamo in Italia e tra un’inefficienza e l’altra, ad oggi solo il 9% di queste opere è stato realizzato (anche se poi si continuano a pagare i progettisti e i consulenti per le opere non realizzate, tipo il Ponte sullo Stretto).

Nel mio precedente post ricordavo che circa il 70% delle risorse pubbliche destinate ai trasporti servono a finanziare strade e autostrade (fonte, ministero dei trasporti) mentre l‘80% degli spostamenti Italiani avviene all’interno delle aree urbane dove, per banalissimi motivi di spazio, le grandi opere non possono essere realizzate. (fonte: Corriere dei trasporti, pagg. 14-15)

Queste due percentuali evidenziano in modo abbastanza netto come domanda e offerta di mobilità siano assolutamente indipendenti nel nostro paese: in Italia le infrastrutture vengono costruite laddove possono essere usate da poche persone, mentre la stragrande maggioranza degli italiani è abbandonata a se stessa nel proprio tentativo affannoso di spostarsi da una parte all’altra della città.

In Italia c’è qualcosa che non funziona nel mondo dei trasporti, ma non lo si può dire, perché si finisce immancabilmente per finire nel mirino di qualche esimio economista pronto a giurare e spergiurare che il trasporto pubblico in Italia gode già di troppi sussidi e a bollare come sinistrorso (è un male?) e nemico dell’automobile chiunque osi avanzare un minimo dubbio.

È il caso del prof. Marco Ponti, mio collega di blog, che nel suo ultimo post ha dedicato molta attenzione alle mie posizioni sostenendo, tra l’altro, che le ferrovie non siano mai remunerative e che poiché l’automobile è il mezzo di trasporto principale usato dalle classi meno abbienti della popolazione per spostarsi, non può essere messa in dubbio.

Insomma, visto che lo stato paga per le abitudini di trasporto dei ricchi e non dei poveri, invece di estendere i privilegi dei più facoltosi anche ai meno abbienti, si preferisce percorrere la strada inversa perché un sistema di trasporti basato sull’automobile privata è in grado di generare profitti, mentre il trasporto pubblico locale no. Siamo di fronte nuovamente al caso della vignetta citata all’inizio: si propone di tagliare l’albero che ci fa ombra per costruire una casetta che ci faccia ombra perché così si riesce a creare denaro e lavoro, facendo finta di ignorare i costi esterni.

Ogni automobile privata in Europa genera costi sociali per 16.000 euro ogni dieci anni in termini di incidentalità, inquinamento, congestione, rumore e contributo al riscaldamento globale, per un totale di 373 miliardi di euro all’anno che però non vengono mai inseriti nel computo relativi ai costi diretti derivanti da un sistema di trasporto basato sull’automobile.

Capiamoci, qui non si tratta di essere favorevoli o contrari all’automobile perché sarebbe assolutamente privo di senso schierarsi da una parte o dall’altra: l’automobile è un oggetto che, al pari di un cucchiaio o di una motosega, ha una funzione specifica e ci si può schierare a favore o in senso contrario unicamente rispetto all’uso che se ne fa: sono favorevole all’uso del cucchiaio per mangiare la minestra, ma sono contrario all’uso del cucchiaio per scavare delle gallerie (salvo per dover scappare da qualche prigione). Allo stesso modo, sono favorevole all’uso dell’auto per raggiungere località sperdute altrimenti isolate, ma sono contrario all’uso dell’auto in città (salvo per favorire la circolazione di invalidi, malati o anziani).

Oggi il sistema di trasporto italiano sta mostrando la corda: aver messo al centro delle decisioni la profittabilità degli investimenti ha portato il paese ad avere le città più congestionate d’Europa, dove ci si muove alle stesse velocità del ‘700, mentre il trasporto pubblico viene assoggettato a tagli indiscriminati (si veda qui qui e qui) e si continua a puntare su grandi opere che sono dei veri flagelli per il debito pubblico e per la salute dei cittadini. Questo è un modo vecchio di concepire la mobilità e che deve essere abbandonato a favore di un modello di mobilità nuova che metta al centro il bisogno di mobilità dei cittadini e che permetta a tutti, a prescindere dal proprio reddito, di spostarsi da A a B utilizzando il mezzo di trasporto più efficiente, sia questo l’automobile, il tram, la bicicletta o il treno.

Fino a qualche anno sarebbe stato necessario fare uno sforzo di immaginazione, oggi basta comprare un biglietto aereo e dare un’occhiata al resto del mondo per scoprire che se Roma conta 69 auto ogni 100 abitanti e Milano ne conta 55, Parigi ne ha 25, Berlino 29, Londra 31, Amburgo 33, Monaco 35 e Barcellona 38 e non se la passano affatto male.

Voi che dite?

Sono tutti pazzi o hanno scoperto che la strada per migliorare la nostra vita passa dalla razionalizzazione delle risorse?

Per facilitare questo passaggio ci troveremo il 4 maggio a Milano per la prima manifestazione nazionale a sostegno della mobilità nuova. Segnatevelo sull’agenda.

Articolo Precedente

Energia nucleare, Fukushima non è la fine dell’industria atomica nel mondo

next
Articolo Successivo

Governo ambientalista, per la fiducia firma anche tu!

next