La crisi erode anche i sogni dei giovanissimi, sogni che restano sempre più ancorati in un cassetto che difficilmente si aprirà. E così la ricerca annuale promossa dall’agenzia Cesop e chiamata Recent Graduate Survey fotografa le ambizioni azzoppate dei laureati nostrani. Crisi e incertezza spingono a cercare di preferire il posto sicuro (che c’è ancora?). Ben sei intervistati su dieci vorrebbero trovare posto in una multinazionale o in una global brand, comunque vorrebbero essere inseriti in un percorso professionale di una grande azienda. Dati alla mano si scopre che il 29,4% dei neolaureati invia il proprio curriculum online soltanto a multinazionali, un altro 26% cerca di ottenere un colloquio nella direzione delle risorse umane di grandi aziende, mentre c’è un (timido) 6.2% che guarda altrove, fuori dall’Italia. L’attività imprenditoriale, quindi il lavoro in proprio, è preferito soltanto dall’1%, mentre un 3.3% punta alla libera professione.

Forse anche per questa mancanza di fiducia in Italia si scommette poco su start up e neo-imprese. Come ha riportato Nòva24 la scorsa settimana anche la Commissione Europea ha fatto scattare un campanello d’allarme sulla mancanza di imprenditorialità. Dal 2004 ad oggi accade che su 27 Paesi dell’Europa allargata in ben 23 è scesa la quota di lavoratori che si mettono in proprio. Tra queste c’è anche l’Italia, una delle realtà con il più alto tasso di professionisti e partite Iva (vere e presunte). C’è di più. L’Italia è il paese che risulta con le peggiori performance sul fronte dell’innovazione.

Così quello che sta accadendo è che la crisi sta falcidiando la speranza di scommettere su se stessi. È come se una comunità fatta un tempo di una miriade di piccole e innovative imprese abbia deciso di non farcela più, abbia rinunciato a sperare. La Cgia di Mestre ha stimato che 1.600 imprese al giorno abbassano la saracinesca, chiudono i cantieri, decidono di fermarsi, piagate da una crisi senza precedenti e da un regime di tassazione che non ha eguali in Europa. Cosi ha dichiarato Giuseppe Bortolussi, a capo della Cgia Mestre: “Entro i primi 5 anni di vita il 50% delle aziende muore per mancanza di credito, per un fisco troppo esoso e per una burocrazia che spesso non lascia respiro“.

Occorre allora recuperare fiducia. E anche proporre le storie di chi ce l’ha fatta. Come Erik Caresio, un giovanissimo neo-imprenditore di Torino, che mi ha raccontato la sua storia e quella dei suoi due amici divenuti soci, Denis Caprara e Stefano Piana, tutti sotto i trent’anni, affascinati dall’idea di aprire una srl ad un euro, sfruttando le nuove norme per l’imprenditoria giovanile. I tre – tutti diplomati da pochi mesi all’Istituto di arte applicata di Torino – alla fine ce l’hanno fatta ad aprire la loro azienda, un’agenzia pubblicitaria, e il tutto grazie anche al supporto della Cna di Torino. Non si sono arresi di fronte alle difficoltà, tra tutti i tempi elefantiaci, quasi tre mesi per ottenere la partita iva. “A Londra si risolve tutto in un paio d’ore e per via telematica, da noi si entra in una giungla burocratica ancora districata”, mi ha detto Erik. In bocca al lupo a lui e ai suoi due soci per la nuova avventura imprenditoriale.

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