Lo schermo del mio iPad si è rotto e al megastore della Apple di Covent Garden mi hanno risposto che la riparazione non è nella loro politica aziendale. Però mi avrebbero dato un nuovo iPad a metà prezzo. Ho obiettato che il mio iPad ha solo tre anni e che non avevo alcuna intenzione di spendere per averne uno nuovo quando il mio funziona benissimo. Mi hanno guardato come fossi una marziana: “Un prodotto di tre anni è obsoleto. Le consiglio di cambiarlo prima che si rompa”. Invece ho trovato un negozietto dove un indiano con 25 pounds (meno di 40 euro) mi ha sostituito il vetro e adesso sono a posto con il mio obsoleto iPad.

Non lo sapevo ma ho toccato con mano il concetto di “obsolescenza pianificata” che è al centro del nuovo libro di Serge Latouche. Si intitola Usa e getta (Bollati e Boringhieri) e spiega perché gli oggetti che compriamo hanno una vita sempre più breve e come produrre e consumare meno non solo si può, ma si prospetta come l’unica scelta davvero economica.

Non è un caso se siamo cresciuti in case dove la lavatrice della nonna funzionava ancora benissimo e ce la tenevamo 15 anni, mentre ora dopo 24 mesi (la durata della garanzia, in genere) una mattina ci svegliamo con la cucina allagata, le guarnizioni saltate e la centrifuga da sostituire. E il tecnico ti dice: “Però il ricambio costa un sacco, ci metta la manodopera, le conviene comprarne una nuova”. No, dice Latouche, non è un caso: gli oggetti sono progettati non per durare, ma per rompersi dopo un periodo calcolato di tempo. La “obsolescenza programmata” è il motore del consumismo ed è alla base dell’economia basata sulla crescita, quella contro cui Serge Latouche combatte da tutta la vita.

Professore emerito di Scienze economiche all’Università di Paris-sud, autore di svariati saggi sul tema dei consumi e dello sviluppo economico, Latouche è ormai divenuto il faro ideologico di chi sostiene che la decrescita e il localismo possono essere l’unica via per salvare il pianeta dai disastri causati dalla globalizzazione, dallo sviluppo e dall’occidentalizzazione. Come ogni teorico che diventa guru, le sue tesi fanno discutere. O lo amano alla follia o lo odiano. C’è chi lo divora come fosse un novello messia anticapitalista e chi lo mette all’indice come un pericoloso utopista del Ventunesimo secolo, con derive reazionarie e comunitarie. In verità Latouche è talmente trasversale da sfuggire alle vecchie definizioni di destra e sinistra, più antropologo sociale e filosofo che economista, un vecchio operaista, un po’ ecologista, un po’ terzomondista, un po’ ideologo di un nuovo umanesimo.

È stato il primo, fin dagli Ottanta, a scrivere che lo “sviluppo sostenibile ” non esiste: o è sviluppo o è sostenibile. Nei suoi tanti saggi e pamphlet ha vagheggiato una società basata non sulla crescita ma su quello che lui chiama “abbondanza frugale”, concetto diverso dal pauperismo .

È contro il “pensiero unico” del mercato che annulla le identità nazionali, è contro la concorrenza e il libero mercato che avrebbero un effetto deleterio sull’ambiente perché causano il saccheggio delle risorse naturali per abbassare i costi. Questo ultimo libro non altro che la prosecuzione ideologica di un discorso iniziato tanti anni fa. Il ciclo breve degli oggetti è l’ennesima stortura della società della crescita, dice Latouche. Il consumismo nasce negli anni Venti e raffina le sue armi velocemente . Si chiedeva allora Edward Filene, magnate dei grandi magazzini di Boston: “Come posso essere sicuro di avere un flusso permanente e crescente di consumatori?”. Risposta: vendendo prodotti “usa e getta (prima dei rasoi compaiono sul mercato i polsini e i colli per camicie). Quello è stato il primo passo. Poi i produttori si inventano il concetto di obsolescenza “progressiva”: cambiare spesso modelli, fare invecchiare il prodotto, renderli sempre più “tecnologici” e inserire meccanismi sofisticati che si rompono facilmente. Esempio tipico: la chiusura elettrica del finestrino al posto della vecchia manovella.

Da lì il passo è breve per arrivare all’’“obsolescenza pianificata”, cioè l’introduzione voluta di un difetto nei prodotti, diversa dall’“obsolescenza simbolica”, ovvero il declassamento prematuro di un oggetto da parte della pubblicità e della moda. Dalla seconda ci si può difendere, dalla prima no. “Si può resistere alla pubblicità, rifiutarsi di prendere un prestito, ma si è disarmati di fronte al deperimento tecnico dei prodotti” scrive Latouche. Pubblicità, credito al consumo e obsolescenza programmata sono i tre ingredienti necessari a far girare la giostra. Il circolo è senza fine. Latouche racconta che negli anni Cinquanta domandarono al presidente Eisenhower cosa dovevano fare i cittadini per combattere la recessione. Lui rispose: “Comprare. Qualsiasi cosa”. Una pubblicità americana proponeva una formula contro la disoccupazione: “Un acquisto oggi, un disoccupato in meno domani. Potresti essere tu!”. Il giochino non poteva andare avanti all’infinito e infatti si è rotto. La ricetta per uscire dal circolo vizioso della crescita è molto latouchana: il mondo si salverà solo se durevolezza dei prodotti, riparabilità, e riciclaggio prenderanno il posto dell’usa e getta.

Insomma, se gli umani la smetteranno di farsi colonizzare dall’ideologia dell’usa e getta ci sarà sempre un negozietto dove un riparatore sarà in grado di sistemarvi il computer.

Twitter: @caterinasoffici

Articolo Precedente

Se l’auto non ha più futuro nelle nostre città

next
Articolo Successivo

La quiete prima della tempesta. L’Italia appesa al filo della Bce

next