L’avvitarsi della crisi politica, la difficoltà di costruire un governo plausibile sul piano politico e programmatico, i dati drammatici della recessione e della conseguente crisi sociale: aspetti che molto spesso, nel dibattito pubblico, hanno fatto emergere l’analogia tra la situazione italiana e quella della repubblica di Weimar.

Da ultimo, ripropone questo paragone Walter Veltroni (nell’intervista rilasciata a Aldo Cazzullo sul “Corriere della Sera” di sabato 2 marzo): “Rischia di restare sul campo – dice Veltroni – solo il ritorno al voto. Ma farlo con questa legge che reitererebbe l’ingovernabilità significa Weimar.”

Nell’intervista viene invocato un ritorno alla “vocazione originaria” del Partito Democratico. Un’analisi corretta, su alcuni aspetti come la gravità della recessione economica, ma totalmente dimentica di alcuni passaggi politici delicati che sono stati le premesse dell’attuale impasse.

Ci si dimentica, in primo luogo, che in un momento decisivo del dicembre del 2011: in un voto di fiducia che poteva mettere in crisi il governo di centrodestra – quando la crisi economica e finanziaria non aveva raggiunto ancora gli esiti drammatici dell’estate-autunno 2011 – ben cinque esponenti dell’opposizione, tre eletti nelle liste del Pd e due in quelle dell’Idv, si espressero per la riconferma di Berlusconi. I tre eletti nelle liste del Pd, infatti, rivendicarono, in un momento cruciale, la propria estraneità per quella postulata “vocazione originaria” a cui fa appello Veltroni.

Secondo passaggio ‘rimosso’ da Veltroni: dopo le dimissioni di Berlusconi del novembre 2011, la sinistra ha avuto l’occasione storica di vincere facilmente le elezioni politiche. Ma, invece di cogliere l’opportunità di dare una risposta convincete alla crisi, ha preferito affidarsi alla logica ‘a senso unico’ del governo tecnico. Un errore di prospettiva fatale: la gestione di Monti ha, di fatto, stremato l’Italia, sia per la gestione del settore pubblico, sia per la stabilità della classe media.

Rimane un terzo grave errore del Pd che non è stato adeguatamente sottolineato: l’impostazione della campagna elettorale di Bersani. La campagna, infatti, è stata condotta soltanto sul tema delle ‘alleanze’: Vendola sì, Vendola no, e, specularmente, lista civica Monti sì, lista civica Monti no. Nessun ‘problema reale’ del paese è entrato nella formula politica del Pd.

Si sta per compiere un altro gravissimo errore: la costituzione di un ‘governissimo’, un governo formato dai due principali contendenti della campagna elettorale auspicato da Grillo. L’esito politico successivo sarebbe la definitiva e irreversibile marginalizzazione del blocco di centro sinistra e il rafforzamento del blocco neopopulista (Pdl e Lega) e del Movimento 5 Stelle.

Quale può essere, invece, la natura del confronto da aprire con Grillo e il suo movimento? C’è una sola certezza: ad aprire il dialogo non potrà essere l’attuale segretario del Pd. In qualsiasi democrazia occidentale, dopo il disastroso risultato elettorale, avrebbe già dato le dimissioni.

È indispensabile, in questi giorni frenetici, trovare una personalità completamente diversa che riesca a rinnovare radicalmente questa classe dirigente, smarcandosi dai soliti maggiorenti e dai presunti consiglieri del principe che si sono segnalati solo per questa disfatta senza se e senza ma.

Lo spettro di Weimar esiste e l’unica possibilità per esorcizzarlo è un rinnovamento radicale che coinvolga in eguale misura uomini e metodi.

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