Pochi giorni fa mi hanno telefonato dei clienti albanesi per chiedermi di assistere un loro connazionale in un processo presso il tribunale di Rimini. Era stato arrestato per aver dichiarato un domicilio falso. Il nostro codice penale prevede anche questo reato. Si tratta dell’articolo 495 del codice penale: “chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o altrui persona…”. Non c’è scritto proprio domicilio, ma l’orientamento della giurisprudenza è ormai consolidato nel darne un”interpretazione estensiva. Almeno da noi, a Rimini, di condanne per questo reato ce ne sono abbastanza.

Nel caso in questione, ciò che mi ha incuriosito di più è stata la giustificazione addotta dal giovane albanese nel voler nascondere il vero domicilio. Ai carabinieri che lo avevano controllato, perché trovato in atteggiamenti sospetti vicino ad una abitazione, aveva mostrato una fotocopia stropicciata di un ricorso presentato al giudice di pace di Milano. Un ricorso vinto contro un provvedimento di espulsione. I militari riminesi contattarono immediatamente i colleghi dell’ufficio immigrazione e venne loro confermato che seppur clandestino, il ragazzo non poteva essere espulso. Dalle carte del mio cliente risultava che il giovane albanese aveva il permesso di restare in Italia per motivi umanitari. I motivi umanitari avevano antiche origini ed erano legati ad un antico codice consuetudinario in vigore ancora tra le popolazioni del nord dell’Albania, il Kanun o Canone di Lek Dukajini.

Il nonno del ragazzo, quarant’anni prima, aveva ucciso un uomo per motivi di cui non si ha oggi più memoria e, a seguito di ciò, come prevede il Kanun (pare che il codice risalga al 1400) era scoppiata una faida tra le due famiglie.

Ismail Kadaré il famoso scrittore albanese, scrisse nel 1978 un bellissimo libro dal titolo “Aprile Spezzato” su questa legge che in una versione italiana approssimativa si poteva tradurre con “legge del taglione”. Al protagonista del romanzo, che vive nel nord dell’Albania, viene affidato il compito di uccidere l’omicida del fratello. Nel momento in cui avrà vendicato il congiunto, scatterà un periodo di tregua al termine del quale anche l’altra famiglia potrà vendicarsi su di lui. Una faida interminabile.

In realtà in Albania, hanno provato a cancellare dalla cultura popolare questa sanguinaria tradizione. Da anni esiste una missione governativa che tenta di porre fine alle vendette del sangue e riappacificare le famiglie. Molto spesso la missione non ha il successo sperato. L’onore ha origini ben più antiche delle leggi dello Stato.

Nel mio caso, la missione governativa nel 2007 aveva tentato di porre fine alla faida tra la famiglia del ragazzo e quella della vittima e anche in questo caso, la conciliazione aveva avuto esito negativo. Per questo il ragazzo era fuggito dall’Albania: “Ho sempre il timore di rivelare dove vivo” – si è giustificato davanti al giudice – “cambio spesso domicilio e vengo ospitato da amici e familiari. Questa è la vita di condannato a morte che conduco dalla mia nascita”.

 

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