Sul successo elettorale del Movimento 5 Stelle si sono già scritti fiumi di parole, anche prima che ciò si verificasse, e ancora di più si scriveranno. Beppe Grillo ha saputo intercettare la rabbia e la delusione dei molti elettori provati dalla crisi, che pesa sulle loro tasche, e da anni di governi dediti a tutto fuorché all’attenzione ai loro bisogni.

Ma il successo di Grillo è anche un fatto mediatico e spettacolare. E’ il successo di un corpo sottratto, il suo, di un corpo fantasma che si è negato alle apparizioni fantasmatiche, sempre e quasi soltanto televisive, a cui si sono dediti gli altri competitor. Un corpo che è stato assente – ma, ugualmente, presente nella forma dell’assenza – dalla tv. Come sa molto bene chi fa tv, l’assenza vale più della presenza nel costruire uno scenario narrativo: è il tempo dell’attesa, il tempo del suspense di hitchcockiana memoria, il tempo in cui ogni sviluppo è possibile. Per questo la sedia vuota e la mancanza non sono meno “pieni”, e anzi lo sono di più, della presenza: valgono come promessa di un incontro che si rinnoverà, e che vive in questa promessa. Mina, assente da anni dagli schermi televisivi, non è meno presente nell’immaginario collettivo (e nelle vendite) dei suoi colleghi presenzialisti. In questo Grillo è stato perfetto nell’annunciare un arrivo in tv nell’ultima settimana di campagna elettorale che non ha mai concretizzato, vanamente scimmiottato da altri aspiranti leader che hanno dato qualche forfait all’ultimo minuto.

D’altra parte il corpo di Grillo si è messo in mostra, si è materializzato e si è offerto dappertutto durante lo “tsunami tour”, ma anche altrove: nella nuotata verso la Sicilia, ma anche, fin da alcuni anni fa, davanti ai cancelli delle fabbriche in sofferenza, o, più di recente, davanti alla platea degli azionisti di qualche banca o azienda in via di fallimento. La politica, questa la sintesi della strategia mediatica di Grillo, è anche un fatto tattile, è fatta anche di presenze di corpi. Alcuni giorni fa rivedevo un bellissimo film di Pippo Delbono, molto efficace nella sua durezza (è questo il cinema italiano che andrebbe fatto di più, non i film “carini”): si chiama La paura, è un film del 2009, ed è realizzato con il videofonino. Non lo si potrebbe chiamare un documentario: è un film che, come spesso capita nel cinema di Delbono, è fatto molto dal corpo ingombrante dello stesso attore/regista. Un film in cui il corpo testimonia e crea: il corpo è al tempo stesso un catalizzatore di energie e un centro propulsore: come se le energie vi si concentrassero per poi ripartirne. Un giorno Delbono va a un funerale: il funerale di un ragazzo di colore ucciso a Milano dai proprietari di un negozio che lo avevano visto rubare un pacco di biscotti. Penetrando e quasi violando la compostezza del dolore degli amici e parenti, Delbono gira le immagini del funerale, suscitando reazioni, passioni, mettendosi in gioco, ingombrando la scena di una presenza non prevista, forse perfino non gradita, ma capace di incarnare una testimonianza. E si chiede: perché qui non c’è nessuno, dov’è il sindaco (all’epoca era la Moratti…), dove sono i politici, dove sono i sindacati, dove sono i comunisti, dove sono i preti, dove sono i cardinali in questo paese ormai razzista?

Forse l’exploit di Grillo deriva anche dall’aver colto questo bisogno di corpi che stanno vicini ad altri corpi. In fondo è un gesto semplice, che tanto tempo fa la politica, e in particolare la sinistra, sapeva fare…

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