Oscar Giannino mi sta simpatico e tendo a condividere buona parte delle cose che dichiara di pensare (la formula precauzionale, viste le circostanze, ci sta tutta). Perciò, alla notizia dei suoi millantati titoli di studio, ho reagito prima con incredulità, poi con amarezza.

Sulle prime non riuscivo a capire come un uomo intelligente, colto e stimato avesse potuto sputtanarsi in questo modo per pura vanità. Poi, ascoltandolo alle Invasioni barbariche intervistato da Daria Bignardi, ho intuito, o creduto di intuire, che in fondo potrebbe non essersi trattato di vanità, ma di qualcosa di più ampio e complesso; un meccanismo sotterraneo e implacabile che coinvolge non solo Giannino ma, in misura più o meno accentuata, tutti noi, e di cui la menzogna, l’esagerazione e l’elusione sono soltanto epifenomeni: semplici effetti collaterali.

Se la mia intuizione è corretta, questo meccanismo opera a livello sociale come una gigantesca pressa che, curiosamente, viene azionata dagli stessi individui che ne rimangono schiacciati. Per semplicità d’ora in poi chiamerò questo meccanismo col nome con cui è universalmente riconosciuto: conformismo. Spesso sono tentato di considerarlo una piaga specifica dei nostri tempi, pur sapendo che probabilmente non è vero. Ogni società fondata sul mutuo riconoscimento dei suoi componenti ha bisogno di conformismo, perché esso agisce sugli individui come la malta tra i mattoni di un muro. Aiuta a tenerli assieme.

Sigmund Freud osservava infatti come il conformismo tenda a dilagare “dove il legame sociale è stabilito soprattutto attraverso l’identificazione reciproca dei vari membri”. Questa identificazione reciproca può avvenire, per esempio, attraverso convenzioni quali il riconoscimento di titoli civili, professionali o accademici. Ogni volta che anteponiamo al nostro nome i vari “Dott.”, “Prof.”, “Ing.”, “Cav.”, “On.” o semplicemente “Sig.”, accettiamo di farci riconoscere secondo una data convenzione che – questo è l’assunto – ci qualifica e ci rende conformi al modello di organizzazione sociale in cui viviamo. Nello stesso tempo, quei titoli circoscrivono il nostro campo di pensiero e d’azione e delimitano il confine tra ciò che (si suppone) sappiamo o non sappiamo, possiamo o non possiamo.

Di conseguenza, i titoli tendono a identificare e definire la qualità di un individuo costituendone via via i prerequisiti per accedere a circoli sempre più ristretti, e assolutamente omogenei, di assegnazione (teorica) del merito. In questo modo, alla fine del percorso, idealmente, tutti dovrebbero trovarsi al posto giusto, ovvero quello che, stando al titolo conseguito, gli compete.

Giannino si è trovato invece a ricoprire una posizione per cui non era conforme. Avendo saltato i passaggi che ne consentivano il riconoscimento sociale nel suo campo di pensiero e d’azione, ha dovuto scegliere se rischiare di non essere riconosciuto e combattere per far valere le competenze acquisite autonomamente oppure, falsificando i fatti (dapprincipio magari attraverso semplici omissioni o elusioni) aggirare il problema e rischiare però, nel futuro, la perpetua irriconoscibilità. E ha scelto quest’ultima strada.

Se avesse avuto un po’ più di fiducia in se stesso, io credo, avrebbe fatto una scelta diversa. Ma il mio non è un giudizio. Provo, in realtà, molta compassione, di quella buona. Anch’io faccio un mestiere per cui ci si aspetterebbe un qualche titolo accademico che, a quarantadue anni, non ho conseguito; e conosco la fatica, ogni volta che si dà per scontata la mia laurea, di ripetere che invece no, non ce l’ho. Non importa quanti esami hai dato, non importa se avevi la media del trenta né il perché, a un tratto, magari a un passo dalla fine, hai mollato. Il titolo non ha sfumature: o c’è o non c’è.

Sono convinto che Oscar Giannino, agli occhi di tanti se non tutti, non avrebbe perso un solo punto se avesse fin dal principio dichiarato di aver abbandonato l’università e di essere un autodidatta, un eccentrico, un dadaista (come ama definirsi, senza però esserlo) che non ha saputo conformarsi e ha voluto o dovuto percorrere una sua propria, specifica strada verso il sapere. Invece ha fatto come lo spaventapasseri nel Mago di Oz, che, sapendosi la testa piena di paglia, non si sentiva abbastanza “titolato” per l’intelligenza pur mostrando acume da vendere. Soltanto dopo che il Grande Mago gli ebbe consegnato un finto diploma di laurea fu in grado di sentirsi finalmente intelligente e di farsi riconoscere da tutta la comitiva come tale. Facendo a quel punto, lui e tutti, la figura degli scemi.

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