Saad Tarazi è un ragazzo palestinese di 33 anni. È nato a Gaza, su quella striscia di terra oramai tristemente nota per un conflitto drammatico e interminabile.

Nel 2004 è arrivato in Italia con un permesso di soggiorno per motivi di studio. Si è laureato in Scienze e tecnologie orafe alla Bicocca di Milano e ha conseguito un master in Ingegneria orafa al Politecnico di Torino, dopo anni di impegno, sacrifici economici e un lavoro part-time da guardiano notturno alla fondazione “La Vincenziana”, che ancora oggi gli permette di mantenersi.

“Ho lasciato Gaza perché non è più possibile viverci – racconta Saad. Si è continuamente controllati, non si ha la libertà di viaggiare o spostarsi liberamente. Bisogna fare la fila e attraversare un check-point anche solo per arrivare in altre città palestinesi o raggiungere Gerusalemme. Ogni volta bisogna chiedere un permesso all’esercito israeliano, che spesso ti viene negato, soprattutto quando sei giovane. Inoltre, a Gaza c’è molta disoccupazione, e lo stato di guerra scandisce le giornate delle persone, dove anche per uscire con gli amici devi restare in città lontane della zona di confine, perché là i bombardamenti sono molto frequenti, tanto che le scuole sono spesso chiuse e gli studenti sono costretti a rifugiarsi in casa”.

“Dopo qualche anno dalla mia partenza in Italia – continua Saad – i miei genitori hanno ottenuto asilo politico in Australia, ma i miei fratelli sono ancora lì. Essendo di religione Greco-Ortodossa, infatti, oggi hanno grandi difficoltà a partire da Gaza, perché da quando c’è stata l’occupazione completa di Hamas, nel 2007, molti Cristiani cercano di lasciare il territorio perché perseguitati, ma la Chiesa, per mantenere i suoi fedeli, ha chiesto alle ambasciate di non rilasciare i visti. Prima del 2004 nella Striscia si contavano circa 4.000 Cristiani. Adesso ne sono rimasti un migliaio, e tra questi ci sono anche le mie due sorelle e mio fratello, che non so quando potrò rivedere”.

Oggi Saad sta lottando per diventare cittadino italiano. “Nel 2008 – spiega – non riuscendo a ottenere il rilascio di passaporto da Gaza, ho richiesto e ottenuto lo status di rifugiato, e nel 2010 ho presentato domanda per ottenere la cittadinanza. Ma perché questa ti venga concessa occorre conteggiare 5 anni dalla data di riconoscimento dell’asilo politico, oppure 10 anni dalla data del primo permesso di soggiorno. In pratica, anche se vivo in Italia dal 2004, avendo lo status di rifugiato da soli 4 anni, non posso avere la cittadinanza. Un cavillo burocratico che mi impedisce di svolgere il lavoro che mi è stato offerto da un’importante azienda orafa svizzera, perché questo status è incompatibile con la loro normativa sull’immigrazione, mentre se avessi la cittadinanza italiana potrei lavorare come frontaliero. Un cavillo burocratico che mi impedisce anche di andare a trovare i miei genitori in Australia, che non vedo da 9 anni, perché da rifugiato italiano l’ambasciata australiana non mi rilascia il visto. Un cavillo a cui mi sono opposto, vincendo anche il ricorso al Tar, ma non ottenendo comunque nessuna risposta dalla prefettura di Milano, alla quale, circa un anno fa, ho rinviato tutti i documenti per rivalutare il mio caso”.

Anche Concetta Monguzzi, sindaco di Lissone (in Brianza), paese di residenza di Saad, si è presa a cuore la sua situazione scrivendo una lettera al Presidente della Repubblica, che in casi straordinari ha il potere di concedere la cittadinanza anche al di fuori dei tempi stabiliti per legge. Una richiesta che non ha mai ricevuto risposta, forse perché l’intervento del Capo dello Stato può verificarsi solo nel caso in cui “lo straniero abbia reso eminenti servigi all’Italia, ovvero quando ricorra un eccezionale interesse dello Stato”, come recita l’articolo 9 della Legge sulla cittadinanza n°91/1992.

Cavilli burocratici e una vita in stand-by, in attesa che qualche mese di differenza rimetta in moto la biografia di un essere umano.

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