La prima volta in cui misi piede in Sicilia, atterrai all’aeroporto di Punta Raisi, già allora intitolato non senza polemiche a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e rimasi incantata: la pista di atterraggio si conficcava nel mare mentre le alture che circondano Palermo si stagliavano contro un cielo così azzurro e in modo così netto da parere di cartone, spoglie e scure come le quinte di un teatro.

L’autista che mi accompagnava premeva il piede sull’acceleratore e intanto m’indicava il luogo della strage: una colonna dall’altro lato della strada all’altezza dello svincolo per Capaci e, più lontano, una cabina grigia da dove si ritiene sia partito l’impulso che ha determinato la deflagrazione.

Ricordo che, all’annuncio dell’assassinio di Giovanni Falcone, i miei genitori si guardarono: alla rassegnazione di mio padre – “Adesso toccherà a Borsellino”, disse – faceva da contraltare l’incredulità di mia madre – “Non possono”, replicò.

Il tutto accadde qualche mese più tardi: come uno schiaffo in pieno viso, che lascia prima attoniti e poi doloranti, la strage di via D’Amelio si portò via Paolo Borsellino e la sua scorta.

Ricordo una foto scattata dall’alto: la confusione, il cemento squarciato, le auto alla rinfusa come giocattoli che un bambino distratto ha dimenticato di riordinare.

Li ricordo entrambi ogni giorno entrando nel Tribunale di Milano nell’immagine che campeggia all’ingresso e che li ritrae in piedi l’uno accanto all’altro: quella prossimità, quella confidenza, quella palese intesa, insieme causa ed effetto della loro amicizia, mi ha sempre turbato, perché ne rivelava allora – e ne rivela tuttora – il lato intimo, sovrapponendo la figura rigorosa del magistrato alla fragilità dell’uomo e dei suoi affetti.

Sissy Ghali

 

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