La campagna elettorale ha visto un’assenza totale di proposte sul riassetto del sistema televisivo che rimane il mezzo più importante nella formazione dell’opinione pubblica. Preservando così una regolamentazione inefficace, basata sulle posizioni conquistate in passato da ciascuna rete.

di Michele Polo* (lavoce.info)

La fatica di essere il Terzo Polo

Dunque La7 andrà con buone probabilità a nozze con Urbano Cairo, un presente nell’editoria periodica e un passato nella galassia berlusconiana. Allarme per il futuro di un piccolo polo televisivo che, avvalendosi delle campagne di epurazione della gestione Raiset degli ultimi anni, è riuscito a raccogliere personaggi di livello, da Mentana a Santoro, Dandini, Lerner e Crozza. E a perdere 100 milioni all’anno, fino a far perdere anche la pazienza agli azionisti di Telecom Italia.

Certamente le prospettive per l’informazione italiana non volgono al bello nel caso di un ridimensionamento dell’emittente, che proprio in figure di spicco dell’informazione ha trovato una sua collocazione. Ma colpisce, francamente, il ridimensionamento nelle pretese di un pluralismo effettivo se tutta la discussione deve vertere sul destino di La7. Un terzo polo televisivo, in Italia, non ha mai preso realmente piede nell’ambito della televisione in chiaro, schiacciato dalla concorrenza dei due colossi Rai e Mediaset. In questo senso, in una logica di editore televisivo, dubitiamo che Cairo stia facendo un grande affare, e stentiamo a immaginare come possa coniugare la compressione dei costi e il mantenimento della stessa linea e standard editoriali. Ma, si sa, gli investimenti nei media, basta pensare alla carta stampata, molto spesso non si giustificano per i profitti ma per l’influenza, da spendere altrove. L’emergere in questi anni di un terzo concorrente dal fatturato comparabile, Sky, ha sicuramente beneficiato alle dinamiche competitive, e ha offerto anche, nell’ambito dell’informazione, nuovi prodotti indipendenti e di qualità. Rimanendo tuttavia, nella gara degli ascolti, molte lunghezze indietro, come è strutturale in un operatore che fa degli abbonamenti, e non degli introiti pubblicitari sostenuti dalla audience, il proprio canale fondamentale di finanziamento.

Misure ancora necessarie

Questa campagna elettorale si è distinta per due elementi: un uso preponderante del mezzo televisivo, rispetto ad altre modalità di propaganda, e una assenza totale, nel dibattito, di proposte su un riassetto del sistema televisivo che garantisca il pluralismo. Con la sapiente eccezione di Grillo, che ha saputo reinventare la più tradizionale comunicazione unidirezionale, dal guru alle folle, combinando la modernità del web e la tradizione delle piazze, gli altri leader si sono affidati a continue presenze televisive, facendoci scoprire l’esistenza di programmi mai sentiti, spazi di nicchia nelle ore più impensate, presentatori improbabili quanto, frequentemente, asserviti. Ma in quest’uso intensivo del mezzo, è scomparso invece il dibattito sul riassetto del sistema televisivo, che si conferma anche questa volta come il mezzo più importante nella formazione dell’opinione pubblica. Come se nell’ultimo anno le dimissioni di Berlusconi da premier e una direzione tecnica della Rai avessero sostanzialmente risolto i problemi.
Avremmo voluto sentire alcune proposte chiare. Che, ad esempio, dicessero che per fare servizio pubblico non c’è bisogno di tre reti, ma di una sola, che non rinunci ai grandi ascolti ma lo faccia in una logica di qualità. Che la cessione di due reti Rai non può che avvenire con una misura parallela che riduca la quota di audience di Mediaset, sancendo il principio secondo cui uno stesso editore televisivo non può superare, con l’insieme dei suoi canali, una quota predeterminata di audience, ad esempio il 25 o il 30 per cento. Che in caso contrario intervengano misure drastiche, dalla cessione di reti a un inasprimento dei tetti pubblicitari. Sono queste misure che potrebbero restituirci un mercato televisivo più aperto, e la battaglia, pur doverosa, per difendere la riserva indiana di La7 appare francamente rinunciataria.
Misure del passato, di chi non vede le nuove dinamiche tecnologiche, gli effetti del digitale, la convergenza tra televisione e telecomunicazioni. Di chi ancora ragiona sulla televisione in chiaro come quindici anni fa. Queste le obiezioni che solitamente vengono, da molti anni, da quanti criticano un eccessivo interventismo, sostenendo che il mercato e l’innovazione si autocorreggono da soli. Riuscendo in questo modo a preservare una regolamentazione inefficace, che si è sempre limitata a sancire gli equilibri oramai raggiunti, rendendo il nostro sistema di informazione un eterno caso di scuola sulle carenze del pluralismo. In attesa del mondo dorato dell’informazione diffusa, non mediata, pervasiva, preferiamo occuparci dei guai dell’oggi, chiedendo alla politica di fare il suo mestiere. Oggi.

*Ha svolto i suoi studi presso l’Università Bocconi e la London School of Economics. E’ professore Ordinario di Economia Politica presso l’Università Bocconi. Ha trascorso periodi di ricerca a Lovanio, Barcellona, Londra e Tolosa. I suoi interessi di ricerca riguardano l’economia e la politica industriale, l’antitrust e la regolamentazione.

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