L’equivoco su cui vado più spesso a sbattere durante le mie avventure di scrittore è che il mio, verso la scrittura, sia un approccio di genere. Che sia davvero un equivoco, come sarei portato a credere, o una verità da cui fuggire di gran carriera, ancora lo devo scoprire.

Si è detto, per esempio, che sono un giallista, e senza neppure prendersi la briga di leggermi. Devo essere un giallista, altrimenti perché avrei speso tempo a promuovere editorialmente il giallo e il noir in tutte le loro sfaccettature? Che me ne veniva in tasca, oltre il normale riconoscimento a cottimo, se così lo vogliamo definire? D’altro canto, devo essere un giallista perché sennò non si spiegherebbe neppure l’altro mio tempo regalato ad analizzare il crimine, un crimine diverso questa volta, reale e spesso banale, di cronache quotidiane alle quali strappare letture faticose e forse ardite, cartine di tornasole di qualcosa comunque poco chiaro.

(Perché “tornasole” alla francese invece del più spontaneo, immediato e corretto “girasole”?)

(Il tempo è quella cosa che si misura con l’orologio. Tempo, passaggi, numeri, certezze. Macché, del proprio tempo occorre restituire certificazione esclusiva. Potrebbe rendersi a breve indispensabile la duplice copia.)

Naturalmente, adesso che l’ho detto – di più: scritto – mi è necessario sgombrare il campo da un altro fraintendimento, reale o ipotetico che sia. Non ritengo l’approccio di genere inferiore a quello letterario, o autoriale che dir si voglia. La narrativa di genere è capace di valori che non sta a me garantire, né questa sede è il luogo deputato ad assicurare. Di una cosa però sono convinto: la narrativa che vende certezze garantite dal passato remoto è computabile. Quando pretende di occuparsi del suo contrario – i dubbi – allora deve innalzarsi verso la letteratura, e nulla probabilmente esiste di meno computabile della letteratura.

(E io, alla fine dei conti, o almeno così mi pare, non ho mai avuto una certezza da vendere, neppure di contrabbando.)

Colpa mia, sia ben chiaro. Non si possono fare tante cose. Nella vita bisogna scegliere. O si fa l’editore o si fa l’editor. O si fa l’editor o si fa lo scrittore. Non si può pensare di poter impunemente indossare tutti questi panni, sia pure alternativamente.

(Problema risolto, allora?)

(Diciamo: sulla via di.)

Non che m’importi, forse alla fine è soltanto una questione di accento o di virgoletta, una semplice variante grafica e tipografica che chi scrive e chi pubblica sa dove mettere e al posto di cosa. Ognuno è quello che si sente, al di là di quello che certifica la carta d’identità. Che infatti ha smesso di garantirlo, consapevole che la professione è ormai la prima incertezza dell’uomo contemporaneo, a costo di un cedimento all’algoritmo più naturale da produrre, quello che perdona lo stesso mestiere trasmesso da una generazione alla successiva, dal padre al figlio.

Alla fine dei conti la differenza la fanno i materiali che si addensano in testa, la forma primaria della scrittura. Senza dimenticare la lettera rubata, quella che da sempre è lì sotto gli occhi.

(E se fosse lei la letteratura che cerchi?)

È lei la letteratura che cerchi.

(E comunque no, non sono un giallista. Sono anzi la cosa più lontana a un giallista che si possa immaginare.)

Non ricominciare daccapo, per favore.

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