Il carcere lo si può raccontare attraverso i numeri, indegni, del sovraffollamento. Lo si può raccontare attraverso la sentenza, sacrosanta, della Corte europea dei diritti dell’uomo, o con la lente appannata di chi crede che in fondo se sei finito in carcere un motivo c’è, e allora poco importa delle condizioni in cui ti trovi a vivere, te lo sei meritato.

Con un progetto di Terra! abbiamo provato a raccontarlo attraverso le relazioni umane e il lavoro della terra. Rapporti nati lavorando uno a fianco all’altro, operatori di Terra! e detenuti, con il solo obiettivo di veder crescere i frutti dei due orti sinergici realizzati nella lingua di terra all’interno delle mura del carcere di Pontedecimo, a Genova.

E così i detenuti hanno smesso di essere numeri diventando persone, con un nome e una storia, col paradosso che quando uno di loro è stato scarcerato: “Ci è dispiaciuto perché non avremmo potuto più condividere insieme quel pezzo di terra.”

Questo è il racconto di Silvia e Francesca, le due coordinatrici del progetto, e dei loro ultimi incontri con i detenuti.

A luglio avevamo salutato i ragazzi con la promessa di rivederci a settembre perché ci sarebbero state tante cose da fare insieme dopo l’estate. Nel frattempo si sarebbero dovuti occupare loro dei due orti sinergici carichi di frutti, cresciuti su un suolo, dentro le mura del carcere, apparentemente arido che dopo le prime cure aveva invece iniziato a produrre con sorprendente abbondanza.

Quando abbiamo ripreso le attività ci sembrava davvero di essere state lontane da “casa”; un’emozione simile a quando rivedi una persona cara dopo un lungo periodo di lontananza. Eravamo curiose di individuare i piccoli grandi cambiamenti avvenuti in nostra assenza. Tese, speranzose di fare ancora parte della vita di chi avevamo lasciato mesi prima, con il timore che il tempo avesse prodotto estraneità; più di tutto eravamo stupite della familiarità di quelle sensazioni, proprio come se stessimo per incontrare la nostra famiglia.

Era passato tanto tempo dall’ultima volta che avevamo oltrepassato il confine di quella città nella città che era lecito pensare qualcosa fosse cambiato.

A dicembre, eravamo di nuovo davanti alla grande porta azzurra d’ingresso, avvolte da temperature gelide che intorpidivano le narici e scoraggiate all’idea di dover trascorrere qualche ora all’aria aperta con quel freddo.

Abbiamo affrontato i controlli, oltrepassato le porte, e ci siamo dirette agli orti, dove avremmo aspettato i ragazzi.

Il cigolio della porta, il tintinnio delle chiavi, il ticchettio dei passi e il vociare confuso, erano il segnale che aspettavamo: ecco comparire i ragazzi dai corridoi di passaggio, accompagnati da una guardia. Mario e Andrea ci venivano incontro con gli occhi che brillavano, impazienti di abbracciarci. Mancava però Giovanni.

Per prima cosa ci siamo accertati reciprocamente che stessimo tutti bene e in salute, felici di esserci trovati, determinati e desiderosi di lavorare insieme.

A quel punto, come una doccia fredda, ci dicono la novità: Giovanni è libero!

Libero!

L’emozione è stata forte, più di quanto con le parole si possa dire.

Eravamo incredule; ancora oggi proviamo a immaginare quanto sia stato incredibile per Giovanni sentirsi restituire la libertà attesa, agognata, inarrivabile e poi di nuovo concreta e reale, come pane tra le mani di chi ne ha dimenticato il sapore.

Libero!

Mario e Andrea ci hanno raccontato quel giorno dello stupore di Giovanni nell’apprendere la notizia, di quanto avessero pianto, di quanto a distanza di giorni ancora non riuscisse a crederci e di come lui stesso sentisse che l’orto, proprio l’orto, prima che la scarcerazione stessa, lo aveva reso un uomo libero.

Francesca e Silvia

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