Quando gli ricordi che cosa ha rappresentato per lui quell’uomo piccoletto che sprizzava genio da tutti i pori, le pause si fanno silenziose. Poi la spiegazione la trova dietro l’angolo della memoria, con infinita poesia: “Perché Lucio era come un passerotto, saltava di ramo in ramo. Incapace di trattenersi troppo a lungo. Lo sapevo che se ne sarebbe andato così, senza avvisare. Questo era. Sono corso a Montreux perché volevo vederlo prima che lo coprissero per sempre, e aveva la solita faccia, beffarda, intelligente, curiosa: ve l’ho fatta anche questa volta”. Rosalino Cellamare, per tutti Ron, dopo un anno trascorso a evitare ogni tipo di riflettore parla di se stesso e di quello che Lucio ha rappresentato per lui. Di come una storia senza confini abbia attraversato le vicende della musica italiana, Ron e Lucio, Lucio e Ron. Fratelli senza distinzione di età e ruoli. 

Lucio musicalmente si fidava solo di Ron. “Anche quando io ho lasciato Bologna e se aveva qualcosa mi chiamava. Non mi dava spazio di giudizio, a dire il vero. Mi chiamava anche nel cuore della notte e diceva: ascolta questo capolavoro”. È seduto nel giardino d’inverno della sua casa di Garlasco, il paese che lasciò da ragazzino perché la Rca lo chiamò a Roma e si trovò davanti a Lucio che gli avrebbe cambiato la vita. Rosalino fino a quel momento faceva concorsi canori. Li vinceva tutti, cose di provincia, periferia milanese, quando andava bene, ma la sua voce non poteva restare una tra le altre. Soprattutto ci credeva. Non si sa come né quando Dalla, che era già Lucio Dalla, insistette perché lo chiamassero alla Rca. “Mi telefonarono a scuola. E quella mattina stessa partimmo per Roma”. Lucio sapeva delle potenzialità che aveva quel sedicenne, origine pugliese, trapiantato in Lombardia, capelli sul rosso, più che biondi e braghe corte. Gli mise in mano Occhi di ragazza, ma non dovevano essere dei geni quelli che facevano la selezione per Sanremo. Così la bocciarono. Due anni dopo finì nelle corde di Morandi. Nel frattempo Rosalino cantò Pa diglielo a Ma insieme a Nada, poi Il Gigante e la bambina e di lì a breve sarebbe diventato Ron.

Inseparabili, lui e Dalla. Componevano e scomponevano insieme. Uno, Lucio, ci metteva il genio, l’altro il metodo. Nacque così Piazza Grande. Che poi uno pensa a Bologna. “In realtà eravamo su un traghetto, appena fuori dal porto di Napoli in direzione Palermo. Io avevo la mia prima chitarra e i 17 anni. Ci mettemmo a strimpellare e ne uscì fuori Piazza Grande. Sentirla cantare poi da Amalia Rodriguez, a raccontarlo oggi ho ancora i brividi. Nacque col mare quella canzone che poi avrebbe per sempre riassunto Bologna”.

Con De Gregori e “Rosalba” Mannoia
La casa di Rosalino, un’ex fabbrica di cioccolato, è un viavai di amici, la sorella, il fratello, la mamma, i suoi cani. Ron ha appena finito di incidere il suo ultimo disco, Way Out, registrato in salotto, col contrabbassista che suonava dal bagno, “perché doveva essere così”. Ogni tanto gli dicono che avrebbe meritato di vendere molto di più, ma lui alza le spalle. In questo è molto visionario, Ron. Come nell’ostinarsi a girare nelle scuole perché i ragazzi imparino a suonare, ma anche a scrivere “altrimenti il cantautorato muore”. Due anni fa è partito per New York, solo con la chitarra a bussare nei bar per chiedere di suonare un pezzo, quasi per vedere l’effetto che faceva. “La gente veniva a darmi pacche sulle spalle e dirmi “non mollare, farai strada”. Un generoso, Rosalino, ma non solo nei ricordi: “Adoro De Gregori, è un punto di riferimento. Mi piace Fiorella Mannoia che Lucio ostinava a chiamare Rosalba. Non gli entrava in testa il nome Fiorella, per lui era Rosalba ed è rimasta tale fino alla fine”. Ama il talento dice, e la voglia di chi può arrivare e ha bisogno solo di una porta aperta. “Prendi Biagio Antonacci. Faceva il carabiniere e veniva tutti i giorni sotto casa a chiedere di vedermi. Mi ha tormentato per mesi. Poi l’ho ascoltato e l’ho visto, Biagio. Mi ha detto: “Mi piace di più Concato, ma mi vai bene anche tu”. Come quando anni dopo Antonacci gli ha detto di voler cambiare produttore, perché non voleva padrini nonostante tutto: “Ha avuto la forza di fare quella rottura. Ecco, io forse con Lucio non l’ho avuta”.

A scrutare nella vita di Rosalino trovi il primo premio al Festival di Sanremo, che fa da soprammobile in una stanza che dovrebbe essere il suo studio. La canzone Vorrei incontrarti tra cent’anni, duetto con Tosca. C’è una fotografia di lui e Nada ancora lontani dalla maggiore età, avevano sedici anni. Belli tutti e due come il sole. Tosti, tostissimi a modo loro. Ma poi ti giri e ovunque trovi Lucio. “Nella mia vita c’è stato mio padre, c’è mio fratello, che mi ha insegnato a suonare il piano, c’è mia madre, che abita qui. E c’è Lucio Dalla. Queste sono le persone che mi hanno segnato e insegnato. Con Lucio è stato un rapporto reciproco, lui mi ha scoperto, io credo di avergli trasmesso molto. La chitarra acustica, per esempio. Alcune parole che non avrebbe scritto. E la precisione, che non avrebbe mai avuto. Durante Banana Republic era un disastro. Io pignolo, in mezzo a lui e De Gregori che è anche romano e romanesco. Quello che se po’ fa anche così. No, io il se po’ fa anche così non lo concepisco”.

Il repertorio sconfinato di Dalla è per metà Ron. Piazza grande, appunto, ma anche Chissà se lo sai, di una poesia struggente, la provocatoria Attenti al lupo. C’è una collaborazione mai interrotta. “Ho appena finito di registrare, ma prima ancora avrei chiamato Lucio, per chiedergli un parere. Era una prassi, reciproca. Lo abbiamo sempre fatto. Mi manca, che dire. Non trovo altre parole. Lucio era un credente, un credente vero. Però mi manca”. È stato il primo a essere avvisato. In tour a Montreux, quel giorno, c’era anche parte dei musicisti che suonavano per tutti e due. “Ero qui, a casa. Sapevo che Lucio aveva problemi di salute, non ne avevo capito la gravità. Ma era lui il primo a non fartela capire. Perché era fatto così. Al funerale mi sono messo da una parte, io, i musicisti, si era creato un circo che non mi piaceva per niente. Per non parlare di quello che è accaduto dopo. Io il 4 sarò in piazza Maggiore, a Bologna. A celebrarlo. Ci sarà la riconcorsa alle sue canzoni più belle, tutti vorranno fare 4 marzo 43, L’anno che verrà. È anche questo il nostro ambiente”.

Sarà l’occasione per dire a quel piccolo uomo quanto è stato grande. Lui che nel 1971 diceva: “Io non sono bello, non sono accomodante, vado in televisione con i vestiti sgargianti. Ma voglio essere questo, niente altro. Non trovo nemmeno giusto che l’uomo per sopravvivere debba lavorare”. In queste parole c’era già tutto il Lucio Dalla che ne sarebbe venuto fuori. Un piccoletto che voleva fare il jazzista ed è diventato un gigante della canzone italiana, un bambino che ballava il tip tap per gli americani e che poi avrebbe segnato qualche generazione e diecimila incontri. A partire da quello con Ron, l’altra metà di Lucio. Era come un passerotto, saltava di ramo in ramo. Incapace di trattenersi troppo a lungo. Lo sapevo che se ne sarebbe andato così, senza avvisare. Sono corso da lui perché volevo vederlo prima che lo coprissero per sempre, e aveva la solita faccia, beffarda, intelligente: ve l’ho fatta ancora”.

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