Il drogato o il presidente? È più difficile interpretare un immaginario pilota alcolizzato o affrontare una mimesi assoluta per diventare Lincoln? È più complesso rendere vero un personaggio di fiction o studiare per far rivivere qualcuno? Nella notte degli Oscar (24 febbraio) il dilemma verrà sciolto. Intanto, sullo schermo, si possono confrontare le interpretazioni antitetiche di Denzel Washington in Flight e di Daniel Day-Lewis in Lincoln. Entrambi già premiati due volte dall’Academy, dovranno vedersela con Bradley Cooper (Il lato positivo), Hugh Jackman (Les misérables) e Joaquin Phoenix (The Master). Ma la dicotomia tra i due è la più netta. Quando Spielbergchiese a Day-Lewis di interpretare Lincoln, l’attore rifiutò: “Non volevo vilipenderne la memoria”. Ci ripensò, ma chiese oltre un anno per studiare biografie e saggi, le registrazioni della voce di Lincoln per trasformare la propria, e andare a vivere per un po’ in Kentucky dove il presidente nacque. Così Spielberg si ritrovò davanti, il primo giorno di riprese, non Day-Lewis ma Lincoln.

Washington s’è inabissato nella storia di un pilota che non riesce a staccarsi dalla bottiglia ma che, grazie a un appassionato talento, riesce a far planare un aereo in avaria salvando quasi tutti. “Quando ho ricevuto lo script ho detto: Wow”, ricorda Washington. Assieme al regista Zemeckis ha portato alla luce un istintivo al limite del controllo, ricorrendo alle proprie emozioni. Certo, anche l’ex Malcom X ha dovuto studiare salendo su un simulatore per capire cosa significhi pilotare un MD-80. Ma la qualità principale della sua interpretazione è rendere reale l’anima di Whip con il corpo buttato nei letti come in cabina, il volto fisso pronto a rivoltarsi in un’espressione di disgusto, le mani che frugano tra drink e sigarette ma manovrano sicure la cloche. Se studio e istinto sono parte del lavoro d’attore, i ruoli possono richiedere più concentrazione sul primo o sul secondo aspetto. Quando si arriva però alla fatidica frase “And the winner is”, spesso l’abilità “mimetica” è premiata a discapito di grandi interpretazioni meno “misurabili”.

Negli ultimi anni, poi, gli Oscar prediligono i personaggi esistiti. È accaduto a Meryl Streep con la Thatcher, ma anche a Sean Penn per Milk, a Seymour Hoffman per Capote, a Jamie Foxx per Ray (Charles) e prima ancora a Ben Kingsley per Gandhi. L’applicazione che porta a diventare una persona nota pare rendere più certa la bravura: se l’originale e la copia sono identici, l’attore fa bingo. Più in generale è il personaggio archetipico ad attrarre l’attenzione dei premi (da Marlon Brando per Il Padrino a Dustin Hoffman per Rain Man): i ruoli meno caratterizzati ma con molte sfumature sono spesso meno valorizzati. Il pilota tossico non è una parte assoluta come Lincoln, ma siamo sicuri che Washington sia meno bravo? Tra i due litiganti, forse godrà un terzo. Potrebbe essere Phoenix, che non vinse nel 2006 quando fece Johnny Cash, battuto da Hoffman-Capote: sfida tra biopic, non a caso.

Il Fatto Quotidiano, 9 febbraio 2013

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