Da un lato occhi verdi e barba chiara dall’altro sguardo scuro incorniciato in tratti mongolici. Ceceni e turcomanni. Ecco i nuovi volti della jihad internazionale che si combatte in Siria per la caduta del regime di Bashar al Assad. I due gruppi condividono lo stesso costone di montagna, Jabal Turkman, una sorta di florido “Appennino siriano” alle spalle di Latakia vicino al confine nordoccidentale con la Turchia.

“I ceceni vivono in un campo militare a parte, sono un centinaio e hanno delle abitudini particolari – spiega Abu Salim un membro del comando dell’Esercito siriano libero che controlla Jabal Turkman, 350 chilometri a Nord di Damasco. Abu Salim decide di parlarci nonostante il rifiuto dei suoi superiori che negano spudoratamente la presenza dei ceceni (in arabo Sciscian) sulla montagna. “Mangiano e dormono tutti insieme, sono ispirati da un forte cameratismo – prosegue -. La maggior parte di loro non parla arabo ma legge il Corano e segue una disciplina più ferrea rispetto agli altri combattenti”. Hanno un’età compresa tra i 20 e 30 anni, non fumano, non litigano tra loro, non reclamano bottini di guerra quando conquistano una base. Comprano le armi al mercato nero siriano dove a venderle sono per lo più alti ufficiali dell’esercito regolare e shabbiha, uomini della milizia pro Assad. “Più di una volta – continua Abu Salim – mi è capitato di partecipare a delle operazioni militari con i ceceni. Quando vengono feriti – esclama con ammirazione – non si lamentano e non imprecano come fanno i siriani. Hanno una straordinaria capacità di controllo data dalla loro profonda fede”. Fede nell’islam che li ispira in patria a combattere con metodi estremi per la totale indipendenza dalla Russia (principale alleato del regime di Damasco) e l’affermazione di un “Califfato islamico caucasico”. Il campo ceceno si ispira alle tecniche di addestramento dei mujaheddin afghani, al momento raccoglie per lo più giovani con fedina penale pulita tanto da poter viaggiare senza problemi. Per vederli bisogna appostarsi davanti alla loro impenetrabile base costruita meno di due mesi fa vicino al villaggio di Rabiaa a circa 35 chilometri dal confine. Arrivano oltrepassando il valico di Yayladagi che separa la Turchia dalla Siria: uno squarcio nel filo spinato suggella un’alleanza tacita tra Ankara e combattenti anti Assad. Molto più vicino alla frontiera è invece il campo militare turcomanno. 

“Siamo stati sempre emarginati dal potere centrale di Damasco” racconta un uomo nella base di addestramento dove vivono più di 250 soldati della brigata turcomanna. Nell’area recintata sono evidenti i segni della mano turca. Pick up nuovi di zecca, fucili ad alta precisione M16 e diesel sufficiente per utilizzare le sofisticate macchine che altrimenti rimarrebbero inutili carrozzoni incastrati nel fango. A fare la differenza durante i combattimenti ormai più che le armi è il possesso di carburante. Tutte le stazioni di benzina nelle zone della Siria liberata dal regime non sono più rifornite. Il diesel viene distribuito in taniche di plastica, versato in imbuti o annaffiatoi di metallo e venduto al prezzo esorbitante di 4 dollari al litro. “I turcomanni sono quasi tutti privi di esperienza e molti di loro non hanno fatto neanche il servizio militare – prosegue il giovane che chiede l’anonimato. Formalmente la minoranza turcofona non riceverebbe nessun contributo da Ankara se non “aiuti umanitari”, ma fonti interne al campo confermano di essere state addestrate da uomini del ‘Mukabarat turco’, ovvero l’Intelligence. Il governo di Erdogan dal canto suo non ha nessun interesse a rendere noto il proprio coinvolgimento diretto in quella che appare sempre più come una guerra per procura.

Da mesi infatti va in scena una subdola strumentalizzazione delle minoranze che potrebbe influire sul futuro equilibrio regionale. In questo quadro confuso, il focolaio jihadista anti Assad di Jabal Turkman sembrerebbe quindi la risposta turca alla concessione di una sempre più ampia autonomia da parte del governo di Damasco al “Kurdistan siriano” dove proliferano i separatisti del PKK (con cui Ankara è in lotta da mezzo secolo). Galvanizzato dal governo di Assad, il partito dei lavoratori curdo ha trovato recentemente nuovo slancio per riprendere a combattere contro “gli oppressori”. Una guerra nella guerra che ha portato la scorsa estate a più 150 morti come risultato della larga offensiva lanciata da Erdogan in riposta a diversi attentati contro le sue guardie di confine. Così a distanza di poco meno di due anni dall’inizio delle rivolte, l’instabilità siriana travalica il territorio nazionale e diventa terreno fertile per ogni sorta di gruppo armato che dichiara di voler combattere Bashar al Assad. “Apriamo le porte a chiunque voglia venire ad aiutarci – spiega Abu Salim -. Dopo la caduta del regime la Siria tornerà ai siriani”. Per i ceceni, invece, giungerà il momento di trovare un altro terreno di battaglia.

di Susan Dabbous

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