La confessione di Graziano Gasparre (leggi) è un diretto nei denti. E’ verità cruda, senza filtri né paracadute. Si è dopato per vincere, si è drogato per allenarsi. E non vuole chiedere scusa a nessuno. E’ lo sfogo di un ex ciclista che, tornato uomo, ha temuto per la sua salute. Si è salvato (il tumore era benigno) e ha deciso di raccontare tutto. Gasparre non è Lance Armstrong: non ha bisogno di concordare un mezzo pentimento (un nuovo ricatto?) e di svelare l’imbroglio per recuperare gli sponsor che lo hanno reso miliardario. E non è neanche Alex Schwazer, perché non piange in favore di telecamera per ammettere la propria debolezza e rifarsi una verginità, se non nello sport almeno nella vita di tutti i giorni.

Gasparre non ha vinto sette Tour de France, né la medaglia d’oro alle olimpiadi. Eppure le sue parole sono più importanti di quei successi. Per due motivi: non sono un inganno e aprono un varco nel sottobosco mai veramente raccontato del doping. “Un sistema” lo definisce Gasparre. Forse è la prima volta che qualcuno lo chiama così, come un’associazione a delinquere di stampo criminale. Di certo, però, nessuno aveva raccontato tutti quei particolari. Dall’interno, da testimone. Anzi, col senno di poi, da vittima. Le soffiate del giorno prima per evitare i controlli; gli ispettori compiacenti (a che prezzo?); le sostanze illegali consigliate dalla squadra ma pagate dal ciclista, “che se ti scoprono, loro devono essere puliti e possono licenziarti”; i soldi spartiti da tutti i protagonisti del ‘sistema’. Non solo. Ciò che fa più male del racconto è la mentalità dell’atleta dopato. Che non può più fare a meno dell’epo perché se non è competitivo deve ritirarsi. Ed è impossibile essere competitivi, da puliti, in un gruppo in cui il “90% dei corridori” fa uso di sostanze illecite. Un circolo vizioso. Che lascia i segni anche quando riesci a uscirne. La cocaina e le anfetamine. Che ti consigliano i compagni di allenamento come rimedio per non prender peso nei mesi in cui non ci sono le gare. Ma che non ti lasciano neanche quando smetti di correre.

Un dettaglio, quest’ultimo, che inevitabilmente ricorda un’altra storia. Senza lieto fine, senza confessione: quella di Marco Pantani. La morte del Pirata è ancora una ferita aperta, su cui è irrispettoso addensare nuovi fantasmi. Ma la domanda è lecita: quanti ciclisti hanno iniziato a sniffare cocaina per motivi per così dire ‘sportivi’? Ora Gasparre ha spiegato che il collegamento non è un azzardo del ragionamento. Basta digitare il binomio ‘cocaina-ciclismo’ su Google e spuntano i primi due casi. Il primo è recente (Mattia Giavazzi, squalificato e ora pulito), l’altro è pesante, perché si tratta di uno dei ciclisti più forti del circuito: Tom Boonen, beccato per la seconda volta nel 2009, dopo il terzo successo personale alla Parigi-Roubaix. Come loro, ce ne sono stati tantissimi. Alcuni hanno dimostrato che la positività alla cocaina dipendeva dalle caramelle importate dal Sud America e non hanno avuto problemi. Altri sono stati squalificati. Altri ancora l’hanno fatta franca. Ma forse poi hanno pagato il conto. Quando è morto (il 28 marzo 2008), Valentino Fois aveva 35 anni. Era uno scalatore. Aveva preso il nadrolone ed era stato squalificato. Non si è più ripreso: depressione e cocaina. Poi il malore che gli ha impedito di ritornare in sella. In pochi ricordano Fois. Ma gli appassionati non possono dimenticarlo: era stato uno dei fidati gregari di Marco Pantani.

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