Quindici round e un epilogo per raccontare la vita insieme che diventa un incubo, la casa che si trasforma in uno spazio chiuso in cui si alternano i combattimenti e le tregue di un amore che il tempo, l’abitudine, le frustrazioni e l’incapacità di comunicare faranno diventare un luogo di violenza. Così InDolore di Cesar Brie, in scena al Teatro Novelli di Rimini mercoledì 6 febbraio alle ore 21,00, esplora la tragedia segreta e onnipresente della violenza domestica. L’autore è un uomo di teatro argentino, una vita in viaggio tra Europa e Sudamerica dagli inizi con la Comuna Baires al rapporto con l‘Odin Teatret, dall’attività nei centri sociali milanesi al lavoro ventennale del suo Teatro de Los Andes sulle montagne boliviane. La coppia sulla scena è interpretata da Gabriele Ciavarra e Adalgisa Vavassori, del gruppo di giovani e efficaci attori riuniti da Brie per il suo straordinario I fratelli Karamazov di due anni fa (per chi lo avesse perso, questo spettacolo sarà nuovamente in scena al Teatro delle Passioni di Modena dal 12 al 24 febbraio).

Il titolo “Indolore non solo contrasta con il tema, ma è a sua volta esplicitamente contraddetto dai riferimenti al pugilato. Che cos’è l'”indolore” della violenza domestica?

Il titolo è InDolore, non Indolore. Significa allo stesso tempo indolore, qualcosa che non si sa, che non viene fuori da quelle mura, e in dolore, dentro il dolore, oppure dolore chiuso dentro… Il titolo originale della piece che avevo scritto in Bolivia era Te Duele? (Fa male?). Ma non mi piaceva, così ho deciso di cambiarlo.

Perché ha scelto questo tema?

Avevo scelto questo tema quattro anni fa, quando feci una prima versione in Bolivia, dove la violenza domestica è più evidente ma non molto maggiore di quella che si subisce nelle famiglie italiane. Mi sembra un tema riportato alla luce dai tanti casi di violenza estrema di cui ci fanno cronaca i giornali quasi ogni giorno.

Come ha rappresentato la violenza sulla scena?

Attraverso immagini, metafore, allegorie visive. Non abbiamo illustrato la violenza, sarebbe insopportabile. Abbiamo cercato immagini che sintetizzassero gli elementi della violenza domestica. I rumori degli oggetti che cadono, metafore per i lividi, la boxe come parallelo, i figli, il tavolo, il letto, luoghi e soggetti su cui si scatena la violenza.

Come si è documentato, dove ha cercato le idee per scrivere?

Avevamo fatto un indagine con dei testi universitari di studio del fenomeno in Bolivia. Ho aggiornato quelle letture coi dati statistici dell’Italia. La scrittura è stata posteriore alla creazione delle immagini. E’ servita a spiegare e poeticizzare le azioni.

Come ha scelto gli attori e come ha lavorato con loro?

Gli attori sono due degli attori di Karamazov. Stiamo creando una compagnia.

Colpisce, nella presentazione che lei ha fatto dello spettacolo, il preciso richiamo a un possibile nesso tra intimità sessuale e violenza.

Credo che una delle scatenanti della violenza familiare stia nella abitudine al corpo dell’altro, nella routine del vivere insieme che oscura la distanza che sempre deve esistere tra il corpo di un altro e il proprio corpo. Se possiedi l’altro e dai per scontato il possesso, l’altro smette di essere altro e può diventare tuo.

Pensa che sia lì la chiave del problema?

Non è la chiave del problema, non credo ci sia una chiave. La violenza domestica attraversa tutte le classi sociali con sfoghi differenti, ma le attraversa tutte. La frustrazione per i problemi del lavoro, le angherie subite quotidianamente negli ambiti che si frequentano fanno sì che il matrimonio assomigli ad una gabbia dove i partner scaricano l’uno sull’altro le frustrazioni, sia quelle prodotte da loro stessi, sia quelle subite da altri. Una gabbia, ecco, dove due sofferenti trasformano la loro angoscia in aggressività verso l’altro. Più spesso è l’uomo che reagisce a questo con le botte.

Il suo testo propone soluzioni, vie d’uscita, rimedi?

Non propongo vie d’uscita. Il mio lavoro non è una tesi sociologica nè un programma. Mostro i comportamenti. Vorrei inquietare le persone che spesso tendono a comportarsi così. Mettergli una spina sul fianco, farli riflettere, commuoverli e farli ragionare.

Qual è, a distanza di qualche tempo dalla sua conclusione, il bilancio dell’esperienza con il Teatro de Los Andes?

La rifarei. Ho imparato a lavorare in condizioni impossibili, abbiamo creato un pubblico senza cedere nei nostri propositi estetici. Abbiamo dimostrato che il teatro di ricerca può toccare molte persone di estrazioni culturali diverse. Quello è il teatro popolare per me: non abbassarsi al gusto dominante, ma alzare gli spettatori a visioni più alte.

Lei ha sempre fatto teatro in una dimensione transnazionale e lavora ancora oggi tra Europa e Sudamerica: che differenze trova tra i due contesti?

Qui non c’è tempo, tutto costa. In Sudamerica il nostro tempo vale meno, e quindi paradossalmente è più prezioso. Lo usiamo di più, ci mettiamo a fare le nostre opere con calma. Qui bisogna correre. E’ il lato misero di questa finta opulenza. E’ triste avere mezzi, spazi e non avere l’essenziale: il tempo per la ricerca. Siamo più ricchi noi, con la nostra povertà. Esiste anche un pregiudizio degli europei rispetto ai latinoamericani, come se essere più poveri significasse essere più stupidi. Invece noi sappiamo tutto di voi e voi sapete poco di noi. Così poi, sempre rimanete stupiti.

Informazioni su www.teatroermetenovelli.it

Biglietti e prenotazioni presso il Teatro Novelli (via Cappellini, 3, tel. 0541/793811) dal lunedì al sabato dalle ore 10 alle ore 14, anche per telefono o via mail: biglietteriateatro@comune.rimini.it

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