Secondo la nostra Costituzione, attraverso la grazia il Presidente della Repubblica, avvalendosi di un istituto di clemenza individuale di antichissima origine, può con proprio decreto estinguere la pena inflitta a un condannato. È un suo potere, previsto dall’art. 87 e riconfermato da una recente sentenza della Corte Costituzionale, chiamata a giudicare su un conflitto di attribuzioni tra Presidente e Ministro della Giustizia. Resta a quest’ultimo, in virtù dell’art. 681 del codice di procedura penale, il potere-dovere di “istruire” la pratica relativa alla domanda che gli viene presentata.

Sulla proposta di grazia esprime il proprio parere il Procuratore generale presso la Corte di Appello o, se il condannato è detenuto, il Magistrato di sorveglianza. A tal fine, essi acquisiscono ogni utile informazione relativa, tra l’altro, alla posizione giuridica del condannato, all’intervenuto perdono delle persone danneggiate dal reato, ai dati conoscitivi forniti dalle Forze di Polizia, alle valutazioni dei responsabili degli Istituti penitenziari. Acquisiti i pareri, il Ministro trasmette la domanda o la proposta di grazia, corredata dagli atti dell’istruttoria, al Capo dello Stato, accompagnandola con il proprio “avviso”, favorevole o contrario alla concessione del beneficio. La grazia può anche essere concessa di ufficio e cioè in assenza di domanda e proposta, ma sempre dopo che è stata compiuta l’istruttoria. Un iter molto complesso, dunque, che termina, quando la grazia è concessa, con il pubblico ministero competente che ne cura l’esecuzione, ordinando la liberazione del condannato.

Ora, è noto a tutti che gli istituti penitenziari italiani scoppiano di sovraffollamento. Sempre più frequenti, e onerose per noi contribuenti, sono le sanzioni che giungono da organi di giustizia europei al nostro Stato inadempiente. Non solo non si decide un provvedimento di clemenza generalizzato (che potrebbe non risolvere se non temporaneamente i problemi) ma da troppi anni non si mette mano a una riforma vera della giustizia, che risolva i nodi strutturali che intasano le aule di giustizia prima e le prigioni dopo. È necessaria una profonda revisione del Codice Penale (varato dal ministro fascista Rocco nel 1930) e di tutta la normativa che riguarda i reati e le relative sanzioni, ingarbugliata da un ventennio di interventi viziati dalle emergenze del momento.

I rappresentanti delle istituzioni, invece, appaiono paralizzati da un mix di incapacità e paura dell’impopolarità (vivendo in una continua campagna elettorale che restringe gli orizzonti). Ogni tanto si spendono spudoratamente per salvare questo o quell’imputato eccellente. Poi, per assecondare l’elettorato allarmato dalla crescita della delinquenza, adottano misure sconclusionate su recidivi e ladri di polli. Così, da un lato la nostra classe dirigente continua a scalare le classifiche mondiali della corruzione, dall’altro intanto i carceri si riempiono di bassa manovalanza, analfabeti, piccoli spacciatori, immigrati clandestini.

In ogni cella stanno stipate decine di persone di questa risma e quando tocca a un personaggio “illustre” di dover andare a spartire i suoi pochi metri in queste condizioni, se proprio non si trova altro mezzo si ricorre alla grazia. Che giunge con tempestività sospetta. Nella mia attività a Rebibbia, ne ho visti di poveracci scontare pene inflitte alla carlona, senza adeguate tutele e magari in contumacia. Molti, dopo lunga reclusione, si affidano alla grazia e aspettano per anni senza risposte.

Si allarga sempre più, nella nostra stanca società, la distanza tra primi e ultimi della scala sociale e anche la grazia, istituto di nobili origini, va a contribuire a creare un giustizia di casta: debole con i forti, forte con i deboli. In altri termini,  iper-garantista con ricchi e potenti, inflessibile con gli indifesi. È allora normale che la madre sconsolata di un condannato che lei e qualcun altro evidentemente ritengono “famoso”, già nel momento della carcerazione rivolga le sue implorazioni al Presidente della Repubblica.

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