Un singolo carico di fascino ed inquietudine, come la mezzanotte in un mondo per nulla perfetto, rischiarata minacciosamente dalle esplosioni delle bombe: Distant Skies (Don’t Say a Word) è lo splendido brano, prodotto in modo esemplare da KutMasta Kurt, che ha dissodato il terreno per l’uscita di One Is a Crowd, il secondo album di Suz, prevista per il 31 gennaio su No.Mad Records. Le metafore sono importanti nella poetica di Susanna La Polla: se, immerso in un’atmosfera in cui riconosciamo il marchio classico ed inconfondibile del produttore storico di Kool Keith, il silenzio può essere Louder Than a Bomb – un tòpos dell’hip hop americano – ascoltando invece il disco nel suo complesso l’impressione è che, come canta Suz in Out of the Blue, il sole sia alto ma che il mattino sia ancora giovane, Sun Is High but the Morning’s Still Young.

Queste parole paiono esemplificare perfettamente la sua attuale condizione musicale: Suz ha un background di tutto rispetto ed ha compiuto un notevole cammino dai tempi in cui ha esordito come corista e vocalist di Papa Ricky, una ventina d’anni or sono, ma il suo nuovo disco dimostra che la strada da percorrere potrà essere ancora altrettanto lunga e piena di soddisfazioni poiché la sua musica è saldamente proiettata nel futuro. Questo grazie anche ai suoi tanti ottimi collaboratori, da quelli abituali come gli ex Casino Royale AlessioManna (Blackjob) ed Ezra, che la accompagnano anche dal vivo, a quelli “occasionali” ma di lusso come Dj Pandaj, Bruno Briscik, Angela Baraldi o come l’ex Sangue Misto Deda nelle vesti di Katzuma and the Expanding Machine che ha curato uno dei remix di Distant Skies.

Nella voce e nella musica di Suz vi è una impronta profondamente black, non soltanto blues, soul, hip hop ma oserei dire “giamaicana”, così come è stata filtrata, rielaborata e metabolizzata dalla bass culture e dalla scena elettronica anglosassone. Il trip hop bristoliano del Wild Bunch, artisti del calibro di Massive Attack, Tricky, Shara Nelson, Neneh Cherry, restano certamente punti di riferimento imprescindibili ma il nuovo lavoro si apre a varie sonorità e stili: pezzi come la vertiginosa Frailest China e la caracollante e claustrofobica The Enemies Within approfondiscono il loro raggio d’azione, prefigurando un futuro sempre più eccitante. Ed il 9 febbraio vi sarà l’occasione propizia per vederla all’opera nella sua Bologna, all’Arteria.

Negli USA è appena uscito The Best of Punk Magazine, un bel volume antologico dedicato alla storica fanzine americana della seconda metà dei Settanta. Lo sfogli e nelle prime pagine appare una magnifica carta topografica a fumetti intitolata The Punk Map of N.Y.C. (for jerks who just don’t know their way around): qui abita Patti Smith, là c’è il CBGB, lì c’è la casa di Lester Bangs e così via, in esilarante e mirabile rassegna. Embè, che c’entra? Direte voi. E’ da qui che ho tratto ispirazione per la domanda con cui si apre la nostra conversazione con Suz… ecco che c’entra.

Spesso vengono citati Stop al panico e L’Isola nel Kantiere come emblematici di un’epoca. Se dovesse descrivere la sua Bologna di fine Ottanta primi Novanta, il periodo in cui ha mosso i primi passi e si è fatta musicalmente le ossa, quali persone, luoghi, eventi citerebbe Susanna La Polla per darne una raffigurazione, come fosse un affresco o una mappa?

Di quell’epoca ricordo ovviamente le occupazioni. L’Isola nel Kantiere, che sorgeva nel retro palco dell’Arena del Sole allora in ristrutturazione, in Piazza San Giuseppe. La Fabbrica invece era nel luogo in cui oggi sorge l’AC Hotel, in via Serlio: ci avevano suonato gruppi del calibro di Test Dept e Fugazi. Spike Lee venne a Bologna in quel periodo. Anche se ascoltavo di tutto, l’influenza più grande per me arrivò dall’hip hop e sono felice ed orgogliosa di aver vissuto quel momento in cui in Italia è tutto cominciato. Oltre a Stop al panico/Stop War dell’Isola Posse All Stars, altri pezzi storici dell’epoca erano Slega la Lega/Gara Dura dei Fuckin’ Camelz ‘n Effect e Sfida al buio di Speaker DeeMo. Ricordo le serate Ghetto Blaster del giovedì, dedicate all’hip hop e fondamentali per la mia formazione, e quelle alla Morara che organizzavamo con la Young Energy Posse di cui facevo parte. Pur non facendo parte dell’Isola, la frequentavo tutti i giorni: lì sono stati organizzati concerti storici come quelli di Henry Rollins, Vandals, HR dei Bad Brains, Gorilla Biscuits. C’era stata la tre giorni INK 3D, forse il primo grande meeting underground italiano dedicato a nuove tecnologie e hackers. Inoltre intorno all’Isola gravitava anche la celebre Mutoid Waste Company. E non è finita qui perché sempre lì sono state organizzate le prime lotte nel fango, incontri di boxe, il primo Cotechino d’Oro: tutte manifestazioni che suscitavano anche una partecipazione popolare. Al di là di ogni nostalgia, ho sempre pensato che quella dell’Isola nel Kantiere sia stata un’esperienza assolutamente fuori dall’ordinario, irripetibile. Un altro luogo importante all’epoca era Scandellara, che grazie a Pecos è diventata una vera e propria fucina di artisti. Anche il Covo per il punk e il rock ed il Casalone per il reggae avevano un ruolo di primo piano: quando suonavo con i Sushi à la Suntory, con Riccardo Pedrini, facevamo le prove lì oltre che alle Case Occupate di via del Pratello. Dimenticavo: il Pellerossa, il centro sociale per un breve periodo in piazza Verdi prima dell’apertura del Livello 57. Tra le tante persone non posso non ricordare Papa Ricky, che mi chiese per la prima volta di andare a cantare con lui durante una delle feste organizzate Mutonia a Santarcangelo di Romagna. E poi DJ Fabri, ex batterista dei Negazione e dj di Papa Ricky, che mi fece conoscere prima la dancehall music, poi la jungle: è anche grazie a una persona squisita come lui che ho accresciuto la mia cultura musicale. La Momma invece mi ha fatto ascoltare un sacco di hardcore punk e insieme abbiamo seguito in tour gli Agnostic Front nel ’92.

Al Der Standard (Modo Ovest) hai appena proposto una playlist di brani che hanno avuto un ruolo decisivo nella tua formazione. Tra i tanti ad esempio ho riconosciuto la meravigliosa versione di Black Coffee di Tricky, nelle vesti di Nearly God, con Martina Topley-Bird alla voce. Qualche altro titolo essenziale per i nostri lettori?

Innanzitutto la versione di Black Coffee interpretata da Sarah Vaughan e datata 1949: questo e altri suoi brani hanno influenzato molto la mia maniera di cantare. Poi: Los Angeles degli X, Manchild di Neneh Cherry, Step in the Arena dei Gangstarr, Breach the Peace degli Spiral Tribe, Cose difficili dei Casino Royale, Lo straniero di Sangue Misto, Il suono della strada di Dj Gruff, I Put a Spell On You di Screamin’ Jay Hawkins, 2000 Light Years from Home dei Rolling Stones ed anche nella cover dei Danse Society, Pure Pleasure Seeker dei Moloko, New Forms di Roni Size feat. Bahamadia, Anthony Perkins dei Gaznevada… ma accidenti, non basterebbe una settimana per elencarli tutti!

Quali sono il significato e la genesi del titolo del nuovo album, One Is a Crowd? Quali allusioni più o meno esplicite di carattere artistico si possono cogliere nell’arco del disco?

One Is a Crowd mi è balenato in testa un giorno. Non è un concetto individualista: dal mio punto di vista, anzi, una persona è il risultato di una moltitudine di esperienze. Se vuole, una persona ha anche la potenza di una moltitudine e può da sola riuscire a smuoverne molte altre in vista di un obiettivo comune. Tempo dopo ho scoperto che One Is a Crowd è anche il titolo di un libro scritto dall’attrice afroamericana Beha Richards, la prima ad interpretare la pièce teatrale The Amen Corner di James Baldwin ovvero uno dei testi di cui mi ero innamorata quando avevo vent’anni, consigliatomi da Ishmael Reed in persona. Questa singolare coincidenza mi ha fatto pensare che avevo davvero scelto il titolo giusto. Per quanto concerne alcune delle citazioni e delle allusioni contenute nelle mie canzoni: in To Here and Now c’è un sample della title track, scritta da Dave Grusin, della colonna sonora di Yakuza di Sidney Pollack; il titolo di The Enemies Within strizza l’occhio ad un celebre episodio di Star Trek; nel testo di Let One Be a Crowd cito le parole Bang a Gong che ho ripreso da Get It On di Marc Bolan [dall’album Electric Warrior dei T-Rex NdR.]

La voce di Suz ha pochi eguali nel panorama italiano: costituisce uno di quei rari casi in cui avviene l’incontro tra un background culturale internazionale, consapevole ed articolato ed un mix di spiccata sensibilità musicale e doti canore. Quali altre voci femminili dovremmo tenere d’occhio tra quelle emergenti? Quali invece le voci nella storia della musica senza le quali Suz non si esprimerebbe nel modo in cui si esprime?

Ti ringrazio, fra le cantanti italiane vorrei citare Francesca Amati (AmyCanBe, Comaneci), che musicalmente sento molto vicina a me, ma anche Francesca Bono (OfeliaDorme, LetHerDive) e non ultima Estel Luz (DotVibes) che duetta con me in Bring Us Down. Per quanto riguarda le grandi voci femminili che mi hanno influenzato dico in primo luogo Sarah Vaughan– forse ancor più di Billie Holiday– e poi Maddy Prior degli Steeleye Span, Mama Cass dei Mamas and the Papas e tutte le voci del trip hop, da Neneh Cherry a Shara Nelson, da Nicolette a Martina Topley-Bird sino a Roisin Murphy.

Cos’è cambiato dai tempi di Shape of Fear and Bravery nel modo di lavorare? Il nuovo disco ha avuto una genesi ed una gestazione differente in fase di produzione e realizzazione? Se volessimo confrontarne le sonorità quali sono le caratteristiche salienti dell’uno e dell’altro?

Innanzitutto sono cambiati i musicisti: nel primo i pezzi erano stati scritti dal Reverendo M e su quelli io avevo individuato melodie e scritto i testi. Poi alcune divergenze hanno portato allo scioglimento di quella formazione di cui faceva parte anche l’arpista Duccio Lombardi. Il nuovo disco è invece nato a partire da quattro pezzi scritti da AlessioManna, ex bassista dei Casino Royale. Il tutto è stato poi prodotto da Ezra al No.Mad studio di Torino, io al suo fianco, tranne il primo singolo, prodotto da KutMasta Kurt, lo storico collaboratore di Kool Keith, e Nighthawk, coprodotto da Bruno Briscik. Oltre ad alcuni brani scritti da Ezra, c’è anche un brano scritto dal bravo Luca Scarrone e cui partecipa Angela Baraldi, collaborazione di cui sono orgogliosissima dal momento che apprezzo molto Angela sia come artista che come persona. Ciò che è rimasto costante dai tempi del primo disco sono Ezra alla produzione ed AlessioManna ovvero i musicisti che mi accompagnano dal vivo. In cosa differiscono i due album? Il primo era un disco molto scuro ed era molto particolare perché c’era l’arpa: non mi pare vi siano molti dischi di musica elettronica in Italia in cui compare questo strumento. Nel nuovo disco ci sono invece parecchi brani up-tempo, alcuni dei quali potrebbero addirittura essere ballabili: posso affermare che One Is a Crowd si apre un po’ al pop ma non è assolutamente una caratteristica studiata a tavolino. Altra differenza fondamentale è che nel nuovo disco ci sono duetti vocali, cosa che non succedeva in Shape of Fear and Bravery.

Le collaborazioni con tanti artisti italiani di ottimo livello sono note. Quello che mi incuriosisce è invece sapere come è avvenuto il contatto con due produttori d’oltreoceano come Thavius Beck e KutMasta Kurt: a mio avviso hanno fatto davvero un bel lavoro, il primo remixando The Gathering ed il secondo producendo il nuovo singolo, Distant Skies.

Per Thavius Beck devo ringraziare Myspace perché avevo sentito un suo bel remix di un brano di Nine Inch Nails insieme a Saul Williams, intitolato Survivalism: dal momento che parliamo di artisti che amo molto ho provato a contattarlo e la cosa è andata a buon fine. Invece la collaborazione con KutMasta Kurt è nata tramite Facebook: avrei tanto desiderato anche un cameo di Kool Keith ma poi purtroppo non si è concretizzato.

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