Alla metà degli anni duemila, si era diffusa la paura che le banche straniere potessero progressivamente conquistare le banche italiane. Quella paura, come sappiamo, comportò un’ondata di fusioni e scalate. Destra e sinistra sostenevano la necessità di far nascere banche italiane più grandi. Nascevano così colossi come Intesa-San Paolo e Unicredit-Capitalia.

Monte dei Paschi abbandonò il progetto di fusione con BNL e finì per essere accusata di essere troppo provinciale e isolata. Nasce in quel clima (fine 2007) l’idea di acquistare a un prezzo di 9,5 miliardi di euro, la banca Antonveneta dagli spagnoli di Santander che l’avevano acquistata per 6 miliardi.  E’ da questa acquisizione che nascono molti dei guai successivi della banca toscana. Franco Bassanini (ex vice-presidente del MP) che oggi prende le distanze da Mussari, al momento dell’acquisizione la definì “la migliore operazione possibile” (Panorama).

L’acquisto dell’Antonveneta impone a MPS la necessità di un aumento di capitale per 5 miliardi di euro, sottoscritto per metà dalla Fondazione che controlla la banca stessa. Servono però altre risorse. Nel 2008 si emette anche un prestito obbligazionario subordinato (fresh) per circa un miliardo di euro, sottoscritto per metà dalla solita Fondazione. Il mondo tuttavia è cambiato rispetto al 2005 è fallita Lehman Brothers ed è scoppiata una crisi finanziaria epocale. Il timing scelto per acquisire Antonveneta non è dei migliori. Stranamente, però, nel 2009 la banca toscana riesce a pagare una cedola sulle obbligazioni “fresh” di circa il 10 per cento, con un esborso di circa 100 milioni, anche se gli utili realizzati sono minimi. Restituisce in questo modo molti soldi alla stessa Fondazione. Ma come ha finanziato questa cedola? MPS stipula in segreto dei contratti strutturati con Nomura (Alexandria) il cui fine potrebbe essere stato anche quello di far emergere finte risorse per pagare la cedola.

Nel 2011 MPS riceve ispezioni sia dell’autorithy europea preposta alla vigilanza bancaria (EPA) sia della Banca d’Italia e vengono posti in luce  la scarsa liquidità della banca e la sua debolezza patrimoniale. La Banca d’Italia richiede un rafforzamento del capitale di MPS;  il ministro Tremonti prevede un prestito di 2 miliardi (Tremonti-bond) per consolidare il patrimonio dell’istituto senese.  Nel corso delle ispezioni i vertici di MPS si guardano bene tuttavia  dal comunicare che negli anni precedenti avevano stipulato una serie di contratti strutturati con partner stranieri (Alexandria, Santorini e altri).

E’ la Banca d’Italia che nella seconda metà del 2011 richiede un cambio nel management della Banca senese.

Mussari e il direttore generale Vigni vengono allontanati. Le ispezioni della Banca d’Italia proseguono e a metà del 2012 emerge la necessità di richiedere un secondo prestito allo Stato, per 1,5 miliardi di euro (Monti-bond) per rafforzare il patrimonio di MPS. I nuovi vertici della banca, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, provocano scontri dentro l’amministrazione comunale di Siena e ma scoprono e portano alla luce i contratti tenuti segreti. La stima delle possibili perdite legate a questi contratti sono ingenti, si parla di 250 milioni per Alexandria e di 800 milioni per Santorini. L’ammontare di Monti-bond necessari per aiutare MPS sale di 400 milioni, lo Stato quindi dovrà concedere  1,9 miliardi e non 1,5 come stimato originariamente.

Sembra che MPS abbia fatto rientrare in Italia 2 miliardi di euro usufruendo dello scudo fiscale, si tratterebbe di fondi neri creati all’estero forse con parte del sovrapprezzo pagato per acquistare Antonveneta.

Vale la pena a questo punto fare alcune prime considerazioni.

La vicenda MPS pone in luce i limiti di un sistema di forte confusione di ruoli tra politica ed economia locale. 13 dei 16 consiglieri della Fondazione che controlla la banca sono nominati dal Comune  e dalla Provincia di Siena con evidenti conflitti di interesse. Siena è una città nella quale non vi è mai stato un cambio di colore nell’amministrazione locale, ma nella quale vi è una rete trasversale di spartizione del potere e quindi un’assenza di controllo reciproco. MPS ha un modello di governo societario inadeguato. Le operazioni in questione (ad esempio Alexandria) non sono mai state discusse e approvate dal Consiglio di amministrazione perché rientravano nell’autonomia gestionale delle strutture esecutive. Nel CdA non vi era nessun consigliere con deleghe operative, mancava un CEO; tutte le decisioni strategiche avvenivano fuori dal CdA ad opera della squadra manageriale guidata dal direttore generale.

In generale si pone un problema di ripensare il ruolo delle Fondazioni bancarie, strutture semi-private, spesso non adeguate al controllo delle banche e spesso colluse con i vertici delle banche stesse. Non è il momento di demonizzare il localismo ma certo è chiaro che le Fondazioni devono pensare davvero a fare beneficienza e non a gestire le banche.

E’ sbagliato accusare la Banca d’Italia di mancata sorveglianza. La Banca d’Italia in base alle norme non poteva sindacare sul prezzo pagato per Antonveneta, doveva solo assicurarsi che MPS avesse il capitale per poter pagare quel prezzo. Gli ispettori di Via Nazionale inoltre non sono poliziotti e non possono fare perquisizioni, non potevano sapere dell’esistenza di contratti strutturati semi-segreti stipulati da MPS con Nomura. I vertici di MPS saranno accusati quasi certamente di appropriazione indebita, di falso in bilancio e di ostacolo all’organo di vigilanza.

Indispensabile ripristinare il reato di falso in bilancio cancellato dal governo Berlusconi.

Rimane aperta la questione relativa alla necessità di separare l’attività di credito commerciale dall’attività di banca d’investimento.  E’ grave che i vertici di MPS abbiano messo a repentaglio i risparmi di migliaia di famiglie per stipulare contratti sui derivati.

Vista la mala gestione, visto il fiume di denaro pubblico che MPS sta assorbendo è forse il momento di nazionalizzare MPS e di risanarla davvero e poi privatizzarla sul serio.

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