Il 27 gennaio è la giornata della memoria, una ricorrenza riconosciuta dalle Nazioni Unite e celebrata anche in Italia dal 2001 dopo che il parlamento ha votato, nel luglio 2000, la legge per istituire il giorno della memoria.

In questo giorno – che coincide con l’arrivo nel gennaio del ’45 delle truppe sovietiche nel campo di Auschwitz – si ricordano le vittime del nazismo, lo sterminio degli ebrei (“Shoah”) e, nello specifico italiano, le leggi razziali del 1938 e il dramma dei deportati nei lager.

L’istituzione di questa giornata è stata riparatrice della fatica del ricordo nei sopravvissuti e della sottovalutazione del fenomeno che almeno fino agli anni Sessanta ha attraversato anche il panorama italiano.

L’internamento nel lager è stata un’esperienza estrema, una discesa negli abissi dell’umanità, inconcepibile per chi ritiene la storia un progressivo cammino di evoluzione e civiltà. Purtroppo non è questo il percorso della storia che procede a strappi né ci ha salvato né ci salverà la crescita delle nostre società, le conquiste dell’ingegno umano, la tecnologia che ci semplifica la vita. Auschwitz e l’universo concentrazionario dimostrano proprio il contrario: esiste il lato disumano del progresso che può essere utilizzato per l’umiliazione e l’annientamento dell’individuo. I fascismi, da questo punto di vista, furono dittature moderne.

Lo sterminio di massa discende da un disegno pianificato che utilizza la razionalità industriale. All’interno di questo processo l’uomo è assimilato a un manufatto. Nelle menti degli aguzzini la deportazione è come il trasporto della merce, l’internamento è il trattamento del prodotto da spremerne la forza lavoro sino alla consunzione e alla morte inferta con un gas frutto della ricerca chimica, lo Zyklon B, composto a base di cianuro prodotto dalla I. G. Farben, colosso dell’industria tedesca specializzata in antiparassitari. E sempre per la logica industriale, quei corpi che occupano troppo spazio vengono inceneriti nei forni crematori, fabbricati dalla ditta Topf di Wiesbaden che dopo la guerra ha continuato a operare, senza nemmeno sentire lo scrupolo di cambiare denominazione sociale.

Donne, bambini, uomini che varcata la soglia del campo sono stati privati degli abiti, delle scarpe, dei capelli, delle catenine, dei denti d’oro e delle protesi degli arti. Tutti questi oggetti venivano riutilizzati dalle industrie o distribuiti in Germania. Il destino di chi subiva il distacco della protesi era poi quello di essere subito condotto nelle stanze della morte poiché inabile al lavoro. Gli internati venivano privati anche del nome, al suo posto l’unico identificativo era un numero di matricola inciso sulla carne, primo atto di degradazione dell’individuo che nel campo vale meno di uno schiavo.

La privazione dell’identità diventa, con i giorni, progressiva perdita del proprio corpo sino a che le persone non sono state ridotte a fantasmi di ossa barcollanti. A quel punto, quando le guardie constatavano che la capacità lavorativa dei prigionieri era esaurita, venivano condotti nelle camere a gas dove anche la morte non avveniva in maniera indolore, ma era lenta nel patimento dell’asfissia.

Nei campi trovano la morte oltre 3 milioni di ebrei (che tra fucilati e morti nei ghetti diventano circa 6 milioni), 3.300.000 prigionieri di guerra sovietici (anche sugli slavi piomba la politica di annientamento), 1 milione di oppositori politici, 500.000 zingari Rom (Porajamos = distruzione nel linguaggio Romanès), circa 9.000 omosessuali, 2.250 testimoni di Geova oltre a 270.000 morti tra disabili e malati di mente.

I pochi sopravvissuti a questo orrore, oltre a portarsi una ferita indelebile per tutta la vita, hanno faticato a raccontare la loro esperienza e a essere compresi da coloro che non l’avevano vissuta e non accettavano di capire tanto dolore o semplicemente se ne volevano distaccare per ricominciare a vivere dopo la guerra. Yakov Vincenko un soldato semplice dell’Armata rossa che ha aperto i cancelli di Auschwitz ricorda: “Nemmeno noi che abbiamo visto ci volevamo credere. Ho sperato per anni di riuscire a dimenticare, poi ho capito che sarebbe stato da complice, da colpevole. Così adesso ricordo, anche se non sono riuscito ancora  a comprendere”.

Se questo è lo sconcerto di un uomo che non è stato prigioniero, si può pensare quale sia la piaga interiore che resta nei sopravvissuti.

Uno dei libri della letteratura italiana più tradotti nel mondo è Se questo è un uomo, di Primo Levi, ebreo, partigiano azionista poi indimenticabile scrittore. Il testo uscì nel 1947, fra la totale indifferenza. Il successo editoriale arrivò dopo, tra fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Contrariamente ad altri superstiti, Levi cerca di parlare subito, ma ricordare è difficile – scrive – perché l’esperienza del lager appare così assurda da risultare incredibile, uno dei suoi incubi è il racconto della sua sventura alla sorella, ma lei non gli crede.

Ha senso ricordare, oggi come per gli anni che verranno, perché l’esperienza del lager per i sopravvissuti è stata così traumatica da essere quasi incomunicabile.

Auschwitz è arrivata perché migliaia di persone che sapevano si sono rifiutate di porsi il problema della loro responsabilità. Quanti complici, che non hanno ucciso, hanno però permesso che il sistema dell’annientamento funzionasse. Comprendere questi aspetti significa trovare gli elementi per costruire il nostro domani.

Solo in parte l’annientamento nei lager nazisti è un’esperienza unica: la politica dello sterminio nel Novecento non è né cominciata né terminata con Auschwitz: il genocidio degli armeni, le vittime dei gulag, la pulizia di classe dei Khmer rossi in Cambogia e -negli anni Novanta- le pulizie etniche in Jugoslavia e in Ruanda oltre ai gas di Saddam Hussein contro i curdi, definiti un popolo che non esiste.

Quale matrice hanno in comune questi stermini? Quello nazista rimane il più sanguinoso, pedissequo e pianificato; il nazismo ha sacrificato obiettivi bellici pur di continuare a uccidere nei campi, si pensi che a Mauthausen le camere a gas operano fino al 28 aprile 1945.

Alla base di ogni politica di sterminio ci sono sempre: l’assenza di democrazia, la deriva ideologica, nazionalista e razziale innalzata a metro dell’agire politico. Occorre ricordarlo, bisogna ricordare.

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