Alla Casa Bianca, Barack Obama, appena svegliatosi, deve avere pensato che questo suo secondo mandato non comincia sotto una cattiva stella, in Medio Oriente: quell’antipatico di Benjamin Netanyahu, che già s’era rassegnato a ritrovarsi di fronte pimpante per i prossimi quattro anni, esce dalle elezioni israeliane con una bacchettata sulle dita. Certo, i francesi fanno la guerra in Mali, i terroristi fanno razzie in Algeria e la Siria è una polveriera. Ma, intanto, Netanyahu si ritrova con la coda fra le gambe e abbasserà un po’ la cresta. Tempo qualche giorno e gli manderà in visita il nuovo segretario di Stato John Kerry, tanto per saggiarne lo spirito.

A Bruxelles, invece, dove la signora Ashton ha sei ore di vantaggio sull’Amministrazione statunitense, ma ha bisogno di più tempo per mettere in ordine i suoi pensieri, stanno ancora provando a raccapezzarcisi. Così, i Paesi dell’Ue reagiscono per conto loro, auspicando –ma è una banalità- una pronta ripresa dei negoziati israelo-palestinesi.

In barba ai sondaggi, che davano la coalizione di Netanyahu vincitrice, il voto israeliano vede un pareggio, almeno aritmetico, tra il blocco dei partiti confessionali e di destra e quello dei partiti di centro-sinistra: 60 seggi per parte, per lo schieramento che fa capo al premier uscente e per l’opposizione –nella Knesseth, tradizionalmente frammentata, i seggi sono 120, ripartiti questa volta fra 12 formazioni-.

Il fatto nuovo è Yesh Atid, C’è un futuro, del giornalista televisivo Yair Lapid, figlio d’arte (anche il padre era un giornalista poi passato alla politica): la sua difesa della classe media gli è vale il secondo posto fra i partiti in lizza con 19 seggi, dietro l’alleanza Likud – Beitenu di Netanyahu e Avigdor Lieberman, 31 seggi.

Sul fronte della pace, l’incognita principale, però, è l’apparente distacco dell’opinione pubblica israeliana rispetto alla cosiddetta ‘questione palestinese’, fin quando non si tratta di reagire con raid aerei a gragnole di missili katiuscia. C’è il sospetto che la ‘generazione Netanyahu’ voglia fare tramontare, tra lungaggini e diffidenze, la visione dei due Stati che vivano in pace ciascuno all’interno dei propri confini, che è da tempo un mantra della diplomazia internazionale: Andrea Dessì, dello Iai, l’Istituto Affari Internazionale, pensa che l’indifferenza possa seppellire l’dea nel giro di qualche anno.

Su questo sfondo, i risultati elettorali sono un buon segnale, per la pace e per i negoziati con i palestinesi, dopo che la campagna, concentrata sulle questioni economiche e sociali, aveva quasi ignorato il tema?

Non necessariamente: l’impatto è tutto da verificare. Potrebbe risultare negativo, perché un Netanyahu forte sarebbe stato forse più sicuro di sé e meno chiuso nei rapporti con gli alleati, cioè gli Stati Uniti, e con gli interlocutori, cioè i palestinesi, mentre un Netanyahu debole può essere tentato di fare più leva sulla sicurezza d’Israele. Non a caso, le dichiarazioni a caldo puntano sul fatto che “la prima sfida è impedire all’Iran di dotarsi dell’atomica”: il messaggio è che il nemico è alle porte e che, all’interno, bisogna quindi restare uniti, senza cedimenti né concessioni.

Oppure, potrebbe risultare positivo, perché la ricerca di una coalizione “la più larga possibile” –su questo, Netanyahu e Yair Lapid concordano- dovrebbe attenuare l’ancoraggio religioso e nazionalista del governo, spostandone l’ago dal centro-destra-destra- al centro-destra-centro. Già si parla, infatti, di un’alleanza tra il Likud di Netanyahu, Yesh Atid di Lapid al centro e il Focolare ebraico di Naftali Bennett (11 seggi): insieme, farebbero 61 seggi (su 120). Non è proprio una maggioranza larga, ma si sa che poi c’è sempre qualcuno che sale sul carro dei vincitori, annacquando le posizioni di partenza in cambio d’una poltrona.

E, infatti, resta da vedere se i partiti accreditati all’una o all’altra parte resteranno, a negoziati in corso, là dove si erano collocati prima del voto. Netanyahu ha già iniziato le consultazioni, in attesa che i risultati diventino definitivi: la Commissione centrale elettorale attende lo spoglio delle schede degli israeliani all’estero e la spartizione dei voti alle liste non entrate nella Knesseth. E l’attuale ripartizione dei seggi, che vede i laburisti terzi con 15, mentre Kadima s’è ridotto a 2, potrebbe anche subire qualche ritocco.

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