Per ottenere il rinvio di un processo bastavano 1.500 euro. Per evitare la fissazione immediata di un’udienza, invece, ce ne volevano 15mila. Era questo il tariffario dei “ritardi della giustizia a pagamento” vigente presso la Corte d’appello e il Tribunale di sorveglianza di Napoli. Una rete di corruzione che manipolava le carte dei processi – in certi casi per farli durare all’infinito – in cambio di mazzette.

Il giro di illegalità scoperto negli uffici giudiziari di Napoli ha portato all’emissione di ventisei ordinanze cautelari, tre in carcere, 22 ai domiciliari e una misura interdittiva. Tra i coinvolti ci sono anche quattro avvocati, alcuni cancellieri e un ispettore di polizia. In tutto, le persone indagate nell’inchiesta della procura di Napoli sono 45: agli atti ci sono intercettazioni e anche riprese video – delle telecamere installate negli uffici della Corte d’appello – che documenterebbero accordi e scambi di denaro tra cancellieri e avvocati coinvolti nell’organizzazione.

L’ordinanza emessa dal gip Paola Scandone riguarda quattro avvocati del foro di Napoli (Giancarlo Di Meglio, Fabio La Rotonda, Giorgio Pace e Stefano Zoff, tutti ai domiciliari); nove dipendenti pubblici tra cancellieri, commessi e operatori giudiziari, tre faccendieri che da anni frequentano gli uffici giudiziari; un consulente tecnico della procura e del tribunale (sottoposto a misura interdittiva) che su incarico di un avvocato e in cambio di denaro avrebbe redatto perizie psichiatriche d’ufficio compiacenti a favore di un pregiudicato; un ispettore di polizia del commissariato di quartiere Vicaria-Mercato, Gioacchino Valente, che sostituiva relazioni sfavorevoli fatte da colleghi per conto del Tribunale di sorveglianza con altre false e favorevoli. In occasione dell’udienza del 20 ottobre 2011, nella quale il Tribunale di sorveglianza doveva valutare l’affidamento in prova di Giuseppe Lampitelli ai servizi sociali, Valente redasse e trasmise una falsa relazione e Andrea Esposito, dipendente del Tribunale di Sorveglianza, la inserì nel fascicolo, sottraendo contestualmente quella autentica.

L’organizzazione avrebbe anche favorito imputati di camorra. Alcuni episodi agli atti dell’inchiesta, infatti, sono relativi a procedimenti per reati di criminalità organizzata, riguardanti anche persone detenute. Gli indagati avrebbero fatto sparire fascicoli o singoli atti, in modo da ottenere continui rinvii e approdare o alla scadenza dei termini di custodia cautelare, o alla prescrizione dei reati contestati.

Dalle indagini, condotte dal procuratore aggiunto Alessandro Pennasilico, esisteva un vero e proprio tariffario per le ‘prestazioni’ svolte dalla banda. L’indagine ha individuato un “sistema collaudato”, scrive il procuratore aggiunto, che “ha permesso a funzionari e dipendenti pubblici infedeli di stabilire addirittura tabelle per determinare somme di denaro da ricevere in relazione a specifiche prestazioni svolte”. Secondo gli inquirenti erano proprio questi dipendenti a proporre ad avvocati e faccendieri ipotesi di illecito stabilendone di volta in volta il prezzo.

Le cifre riportate dalle carte dell’inchiesta sono riferite al processo a carico di Francesco Troia. Gli intermediari Vincenzo Michele Olivo e Francesco Di Matteo si accordarono con due dipendenti della Corte d’appello, Giancarlo Vivolo e Mariano Raimondi, affinché il procedimento riguardante Troia, condannato in primo grado, fosse assegnato, in seguito ad impugnazione, alla V sezione della Corte d’Appello in cambio di 1.500 euro. Un nuovo accordo, costato 15mila euro, consentì di ritardare la trasmissione degli atti al presidente della sezione per evitare una fissazione immediata dell’udienza. Fissata finalmente l’udienza, fu pattuita la somma di 1.500 euro per ogni ulteriore intervento sul fascicolo (occultamento o sottrazione) per ottenere rinvii.

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